25 Giu Tom Benetollo, il leader pacifista
Nel mio ufficio, attaccata con lo scotch, c’è una Dedica alla cinese che Tom mi aveva regalato. Negli anni si scolorisce, ma sempre lì rimane.
Vent’anni fa, il 20 giugno 2004. Ero con mia figlia Camilla alle isole Tremiti, per un piccolo weekend. La notizia della morte di Tom arrivò come uno tsunami nella calma piatta dell’Adriatico. Tom dal 1973 era stato uno dei miei migliori amici. Forse il migliore. E come in tutte le grandi amicizie cariche di sentimenti, c’erano stati periodi di incomprensione, e di lontananza. Ma quel filo non si era spezzato mai.
Aveva fatto un percorso singolare, Tom. Aveva perduto da giovane il padre, ferroviere, e viveva con la mamma, a Pionca di Vigonza. Una donna forte, dolce, profondamente cristiana, nel Veneto DC di quei decenni. E, dopo gli studi alla Facoltà di Magistero, negli anni caldi della contestazione (Sociologia faceva allora parte di quella Facoltà), scelse di iscriversi al PCI. Iniziò la collaborazione con l’Unità, che aveva firme come Tina Merlin e Michele Sartori. Ma poi si avvicinò alla nostra FGCI, di cui io divenni segretario provinciale nel 1975, appena uscito dal Liceo. In quell’esperienza fondammo, insieme ad altri compagni, Collettivo: un periodico che scrivevamo largamente insieme. Era arrivata alla federazione provinciale del PCI una vecchia e grande macchina tipografica, perfettamente funzionante. Componevamo il giornale, facevamo le lastre, lo stampavamo, lo vendevamo davanti alle scuole e nei circoli. Fu una straordinaria esperienza formativa e culturale.
Tom, che amava e suonava la chitarra, mi accompagnò come guida a scoprire la potenza dei Rolling Stones (a casa i miei fratelli erano tutti per i Beatles), e soprattutto la poesia in musica di Bob Dylan. Lui stesso scriveva testi, tra italiano e veneto, sulle note di Dylan e di tutto quel filone musicale. Negli anni della violenza di Autonomia Operaia, e di quella del Fronte della Gioventù, cercammo di costruire a Padova insieme una linea di interlocuzione con le nuove forme del disagio giovanile, che sarebbero esplose nel 1977. In qualche modo abbiamo entrambi cercato di dar vita a una tendenza un po’ eretica, nella cultura tradizionale del PCI, accusata di movimentismo e talvolta di radicalismo. Ero già segretario regionale della FGCI, e Tom era in segreteria con me, quando promuovemmo due importanti convegni nazionali a Padova per contrastare culturalmente Autonomia Operaia, convinti che quello fosse il nostro ruolo.
Penso che si possa dire, a vent’anni dalla morte, che la formazione di Tom, tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, sia stata decisiva per farlo diventare forse il più importante leader pacifista italiano, e uno dei più importanti in Europa. Quando arrivò a Roma, dove io ero responsabile nazionale degli studenti, nella segreteria di Marco Fumagalli, come responsabile esteri, fu il promotore, insieme a tutto il nostro gruppo dirigente, delle grandi manifestazioni per la pace e contro gli euromissili che si fecero in contemporanea con le altri capitali europee, il 24 ottobre 1981 e poi nel 1982. Enrico Berlinguer, che ci sosteneva nelle complicate trattative sulla prima piattaforma di convocazione – dove dovevamo contrastare posizioni filosovietiche ed estremiste – portò il PCI a essere protagonista, a partire da Pio La Torre in Sicilia, di quella grande stagione.
Del Tom all’ARCI si è già detto e scritto molto. So solo che, quando ero segretario nazionale della FGCI, dal 1985 in poi, Tom era alla sezione esteri del Partito, come responsabile pace, in aperto contrasto e con grandi sofferenze personali con gli indirizzi prevalenti di chi la dirigeva, a partire da Giorgio Napolitano. Fu il nostro “infiltrato” nel Partito per portare avanti le nostre posizioni pacifiste. Il suo approdo all’ARCI divenne poi una sorta di “liberazione”.
Negli anni successivi le nostre strade si sono allontanate. Io, in Sicilia, nel drammatico periodo delle stragi, in prima fila in quella stagione. E poi, al Partito nazionale, condividendo, pur con grandi riserve, le posizioni del Governo a guida della sinistra, soprattutto nella tragica vicenda dei Balcani, fino ai bombardamenti italiani su Belgrado. L’incomprensione fra me e Tom diventò più forte. Con la mia scelta durante i fatti di Genova del 2001, di stare dalla parte dei movimenti, e poi del “correntone” che con Giovanni Berlinguer si candidò alla guida del Partito, e poi nei lunghi anni dei forum sociali, da Porto Alegre a Londra, da Parigi a Mumbai, ci riavvicinammo. C’erano progetti comuni, dopo la rinuncia di Sergio Cofferati a guidare la formazione di un nuovo soggetto a sinistra e di candidarsi a sindaco di Bologna. Ma proprio in quei giorni Tom ci lasciò.
Passati vent’anni, il problema resta.
Forse qualche segnale nuovo ora arriva. Ma la guerra e la sua logica, in un mondo pieno di armi nucleari, imperano come non mai. Qui è il punto di oggi, se vogliamo fare i conti con l’eredità di Tom. Non c’è più un equilibrio del terrore. Ci sono troppi squilibri. C’è il terrore in Ucraina, c’è il terrore del 7 ottobre degli assassini di Hamas, c’è il terrore da mesi di Gaza e di Rafah.
Non esistono luoghi certi di governance globale, e armi sofisticate e letali per l’umanità sono in possesso di regimi autocratici. Sembra che sia l’Occidente democratico ad aver dimenticato la lezione della Seconda Guerra mondiale, e a ritenere possibile, anche a causa dell’assenza di leadership illuminate, il ricorso all’uso della forza. Nell’era nucleare questo ricorso non può mai essere limitato, o controllato. Mettere a fondamento dell’agire politico la pace come priorità e premessa, e gli altri pensieri lunghi, vuol dire ricostruire un campo etico e ideale che si è andato disperso: non con gli occhi rivolti indietro, ma guardando avanti, e alle sfide che i giovani e i giovanissimi sentono sulla propria pelle, cosa fare per difendere il genere umano, il pianeta, la natura, la convivenza, e cosa fare per immaginare una società non più dominata dal profitto di pochi. Possono i movimenti, su scala europea e globale, costringere l’Occidente e i potenti del mondo a cambiare strada?
“Una lezione di morale?” conclude la Dedica alla cinese: “Accendere la luce del sole”, altrimenti se ne viene bruciati. “Noi andiamo senza mai tornare”.