Israele – Gaza: dalla tregua ai presupposti della pace

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di Simone Oggionni e Irene Bregola

Volere la pace è l’eresia dei nostri tempi.

Di tempi segnati, come prima di altri ha indicato papa Francesco, da una terza guerra mondiale a pezzi. Appare tremendamente difficile organizzare un pensiero e un’azione tesi alla composizione dei conflitti militari e non alla loro esacerbazione. La precondizione di qualsiasi necessità dovrebbe essere la comprensione, lo studio onesto del contesto e dei contesti. Lo abbiamo detto sulla vicenda russo-ucraina, invocando un piano di pace in grado di prospettare un equilibrio rispettoso del diritto internazionale e della storia europea. Lo diciamo sulla vicenda israelo-palestinese, che da decenni interroga — con ben pochi risultati — la coscienza dell’Europa.

Qualsiasi prospettiva dovrebbe dare per acquisiti, a nostro avviso, questi tre presupposti.

1. Il primo è il riconoscimento del diritto di Israele a esistere, in pace e in sicurezza. Quando evochiamo la prospettiva «due popoli due Stati» diciamo che deve nascere uno Stato palestinese a fianco dello Stato di Israele. Non al posto di quello israeliano. Lo Stato di Israele prescinde dal governo Netanyahu. È esistito prima di Netanyahu e continuerà ad esistere dopo Netanyahu. Il suo diritto a esistere e la sua concreta esistenza non possono essere messi in discussione, come invece pretendono gli ayatollah sciiti iraniani, gli hezbollah sciiti libanesi, le milizie sunnite di Hamas. La sinistra europea, la sinistra italiana, non può scontare alcuna ambiguità su questo terreno. L’esistenza di Israele trova legittimazione nel diritto internazionale e nella scelta sacrosanta del novembre 1947 compiuta dalla comunità internazionale. Sul piano storico e morale, questa legittimazione è rafforzata dalla necessità di contraddire l’ignominia della Shoah, ultimo atto di un antisemitismo secolare che affonda le sue radici nell’antigiudaismo di matrice cristiana, che è penetrato sia nella storia europea sia — con una sua genesi autonoma — in quella del mondo arabo e che riemerge con forza devastante anche nella cronaca di queste settimane, non solo in Israele. Dagli Stati Uniti alla Francia, dall’Est Europa alla Germania torna il cancro della violenza antisemita, paradigma puro del razzismo, male assoluto della storia dell’uomo.

2. Se un popolo non è il suo governo e uno Stato non fonda la propria legittimità sulle azioni del governo attualmente in carica, è tuttavia vero che del governo — in questo caso del governo Netanyahu — vanno indagate fino in fondo le responsabilità. Tra gli altri, David Grossman e Yuval Noah Harari hanno recentemente scritto che Netanyahu porta responsabilità immense e nefaste: è verissimo. Il suo progetto è incompatibile con la possibilità che riprenda quel dialogo che Rabin aveva immaginato e che la parte più illuminata della leadership laica palestinese aveva capito fosse necessario costruire. La guerra di oggi a Gaza è con ogni evidenza un orrore che va fermato il prima possibile. Occorre distinguere le responsabilità dei vertici militari di Hamas da quelle della popolazione civile e occorre consolidare la tregua che finalmente si è raggiunta. Le carneficine e le vendette sui civili non costruiscono le condizioni di una pace giusta ma, anzi, esacerbano ulteriormente una popolazione, quella di Gaza, e una parte di mondo che stanno crescendo nell’avversione e nell’ostilità verso Israele e l’intero Occidente. In particolare, la situazione umanitaria a Gaza — con responsabilità che sono sia della politica di Israele sia della stessa autocrazia reazionaria di Hamas — desta preoccupazioni rispetto a cui non possiamo essere sordi.

3. Infine, deve essere chiaro un terzo presupposto: la carneficina di Hamas che ha preceduto l’iniziativa militare israeliana, lo scempio del 7 ottobre, è priva di ogni giustificazione, non ha attenuanti. E non ha minimamente a che fare né con la resistenza né con i diritti del popolo di Gaza o del popolo palestinese. Anzi: più l’esclusiva della loro rappresentanza è appannaggio di Hamas e della sua strategia criminale e più deboli sono le ragioni della sinistra laica palestinese, della società civile israele-palestinese. Più deboli, quindi, diventano anche le nostre ragioni.

Anche per questo riteniamo molto sbagliato un appello circolato nei giorni scorsi, con moltissime firme, che chiede al governo di interrompere e fare interrompere agli Atenei italiani ogni tipo di collaborazione con le istituzioni universitarie e di ricerca israeliane e dunque con i loro accademici. Se esistono luoghi che, per definizione, promuovono il dialogo, il confronto democratico, l’espressione argomentata della critica nei confronti del potere e del governo, questi luoghi sono le Università e tutti i centri di formazione e di ricerca. Boicottarli e chiedere che li si boicotti significa non volere in alcun modo dialogare con la società civile e democratica di Israele, con le molte e autorevoli voci che, come noi, vogliono la pace e la coesistenza pacifica tra due popoli e due Stati. Del resto, che anche nel nostro Paese e anche a sinistra covi un pregiudizio anti-israeliano, che poggia sulla cattiva comprensione dei fondamentali, non è purtroppo una novità.


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