Il Governo sceglie il premierato, per la giustizia è un’occasione persa

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Due riforme costituzionali nell’arco di una legislatura sarebbero troppe. Giorgia Meloni, seducendo gli elettori con future riforme di forte impatto nel sistema istituzionale italiano, in campagna elettorale aveva fatto molte promesse che oggi difficilmente riesce a mantenere. Il governo, quindi, si è reso conto che occorre scegliere: quali priorità per il Paese? Tra giustizia ed elezione diretta, qual è la riforma più urgente? La risposta sembra essere arrivata in maniera indiretta da Palazzo Chigi, che rilancia sempre più insistentemente il premierato, a scapito della magistratura, del sistema delle toghe e dei processi, temi urgenti e di interesse reale. In primo luogo, la scelta del premierato risponde a una logica di comodità. Giorgia Meloni, immaginando di proporre un quesito referendario furbo “è giusto che siano i cittadini a scegliere direttamente chi li governa?”, cerca ampio consenso negli elettori. In fin dei conti, di fronte a un interrogativo posto in questi termini, accompagnato da una campagna mediatica intensa fatta nei mesi precedenti al voto, la riforma sembrerebbe ragionevole. Soprattutto, se si evita di bussare alla porta della magistratura con un tono di sfida, come talvolta si è tentato di fare, tutto sommato è meglio. Meno problemi, nessun disturbo, solite interferenze. È una strofa già scritta, che si ripete da trent’anni, e che nessuno pare abbia il coraggio di modificare realmente. 

Tuttavia, alla luce della priorità decisa, sarebbe opportuno chiedersi cosa pensa la gente. Ovvero quali riforme concretamente gli italiani chiedano. Un sondaggio condotto da Euromedia Research (2 novembre 2023) ha fatto chiarezza in merito alle riforme che il governo dovrebbe intraprendere. Il 45% degli intervistati ritiene che la riforma fiscale sia la più urgente, segue il 18% che propone la riforma delle pensioni e al terzo posto il 17,8% vede prioritaria la riforma della giustizia. Inoltre, alla domanda sulla riforma costituzionale, la maggioranza (23,8%) riferisce che non è urgente perché toglie l’attenzione dai problemi, mentre per il 19,8% non è urgente perché ci sono altre priorità. 

Alla scelta di comodo fatta da Giorgia Meloni, si oppone il fronte della minoranza, che rispetto alla riforma della giustizia – argomento meno divisivo perché più sentito dalla collettività – è nettamente compatto sul “no”. Il dato da non sottovalutare è dunque la riunione delle opposizioni, che finora sono state piuttosto separate, ma potrebbero ritrovare uno spirito unitario contro la proposta referendaria del governo. Alla recente manifestazione promossa dal PD a Roma, M5S e democratici hanno gridato a una sola voce contro il premierato, fortemente sostenuti dai propri elettori. Serve prudenza e cautela, poiché i tempi sono lunghi (si concretizzerebbe a ridosso della fine della legislatura) e le insidie sono molte. Non da parte della magistratura, certo, ma anche in Parlamento, soprattutto senza larghissimi numeri di vantaggio, si può soffrire. I precedenti governi, caduti per una manciata di eletti, dovrebbero mettere in guardia Giorgia Meloni.

Dal punto di vista della giustizia, il Paese piange. Dapprima agli occhi dell’Europa, perché l’Italia è al primo posto, nel Consiglio d’Europa, per numero di condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per irragionevole durata dei processi (dietro di noi la Turchia, doppiata); mantiene il primato anche per durata media del processo penale in appello (1167 giorni contro una media europea di 121 giorni). In Italia gli appelli penali durano dieci volte tanto la media europea. Non occorre dimenticare, in tal senso, l’impegno preso con Bruxelles, a cui è stata promessa la riduzione del 25% della durata del processo penale entro il 2026, in linea con gli obiettivi del PNRR. Speranza di dubbia realizzazione. 

Se si passasse, poi, all’analisi specifica delle criticità del sistema giustizia dentro i confini nazionali, non basterebbe un’enciclopedia per raccogliere dati, considerazioni e soluzioni proposte e mai attuate. Su alcuni punti, però, è bene soffermarsi, soprattutto perché utili a far capire quanto la scelta di accantonare la riforma della giustizia sia stata un errore. A partire dalla separazione delle carriere, probabilmente l’aspetto più logico della riforma. Se si intende in prima battuta la netta divaricazione dei percorsi professionali, già si capisce che si tratta di un passo fondamentale. A rigor di pensiero, come può un magistrato inquirente, un accusatore professionista, condividere lo stesso destino di un organo giudicante terzo e imparziale? Solo nella fantastica città di “Utopia” qualcuno può pensare che il magistrato non possa subire influenze tali da condizionare il suo operato nell’una e nell’altra veste. Inoltre, a qualcuno interessa sapere con trasparenza la procedura con cui sono nominati i magistrati più potenti del sistema giudiziario italiano? Oggi i membri del CSM sono notoriamente eletti a seguito di un sistema spartitorio tra correnti; viene da chiedersi come possa stare in piedi in modo efficiente un sistema siffatto. Fuori dalle aule di tribunale, i problemi persistono. La mentalità giustizialista che ha invaso il Paese negli ultimi dieci anni è purtroppo radicata nella società, complice l’inefficienza della giustizia che ha disilluso i cittadini, vittime di gogna e mala gestio del sistema. Secondo tale mentalità, sui giornali, in tv e nell’opinione pubblica un indagato è già condannato, un condannato in primo grado è ormai definitivamente colpevole e un assolto, dopo un lungo processo, non riuscirà a togliersi di dosso l’etichetta del colpevole. Notizie e atti di indagine fuoriescono dai dossier, dalle aule di giustizia, e finiscono in mano a giornali vicini a partiti che le usano per attaccare il bersaglio politico del momento. 

Tutto questo è un cancro, annidato da troppo tempo nelle viscere del Paese. Lo sta consumando lentamente, mentre la politica guarda altrove, preferisce il facile, pensa al breve scatto e non alla lunga marcia. Ogni tanto fa qualcosa, senza grandi risvolti pratici, che pubblicizza come se avesse debellato il male una volta per tutte. Come il decreto rave, quello intitolato a Caivano. Cornici edittali della pena estese, forze dell’ordine più armate; astrattamente ognuna di queste scelte è corretta, tuttavia l’impiego nella realtà non produce effetti considerevoli. Peccato per l’occasione mancata: l’Italia non avrebbe finalmente ottenuto una giustizia equa, ma alle vittime del sistema (quelle ancora tra noi) sarebbe stato ridato ciò che ingiustamente gli è stato tolto. Quantomeno moralmente. Gli altri, quelli come Enzo Tortora, come i quaranta morti suicidi durante Mani Pulite, come anche gli innumerevoli casi silenziosi, sarebbero stati quasi vendicati. O, comunque, il Paese avrebbe iniziato a ripulirsi la coscienza. 


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