Quando il lavoro diventa merce

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MICHELE D’AMICO INTERVISTA STEFANO LUCARELLI 


«La Legge Biagi ha delimitato l’ambito di applicazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa introdotte con il pacchetto Treu, ma ha anche allargato ulteriormente le tipologie contrattuali atipiche. I livelli di protezione normativa del lavoro, secondo la misura che ne dà l’Ocse, si sono via via ridotti». Sono trascorsi 20 anni dall’attuazione del disegno di riforma predisposto da Marco Biagi. Stefano Lucarelli, professore di politica economica all’Università degli Studi di Bergamo e autore del volume ‘La guerra capitalista‘ (con Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti, Mimesis, 2022), ci aiuta a comprendere i limiti delle riforme del mercato del lavoro introdotte con lo scopo di facilitare la crescita occupazionale, e ci rivela gli effetti perversi della mercificazione del lavoro.

«In un bel libro di Emiliano Brancaccio, l’Anti-Blanchard, si suggerisce agli studenti di replicare un test originariamente proposto nel 1999 dall’OCSE. Ormai sono alcuni anni che nelle mie lezioni di politica economica propongo questo test ai miei studenti aggiornando i dati. I risultati empirici che otteniamo utilizzando i dati relativi ai paesi europei confermano che non esiste una relazione statisticamente significativa tra tasso di disoccupazione e indice di protezione dei lavoratori (che misura l’insieme di regole e procedure che disciplinano la possibilità di assumere e licenziare lavoratori nel settore privato). Pertanto, non è possibile affermare che le riforme atte a ridurre le protezioni dei lavoratori abbiano ridotto la disoccupazione».

Professore Stefano Lucarelli, la flessibilità del lavoro che aiuta a creare occupazione è un mito da sfatare?

La deregolamentazione crescente del mercato del lavoro e in particolare la flessibilità salariale sono una costante degli ultimi 25 anni della storia economica italiana. L’origine di questa tendenza può essere individuata nel 1993, con il protocollo del 23 Luglio voluto principalmente da Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente del Consiglio. Questo accordo avrebbe dovuto sancire una nuova stagione incentrata su una mediazione fra capitale e lavoro: le politiche dei redditi e delle innovazioni avrebbero compensato una moderazione salariale che di fatto fu realizzata attraverso l’architettura dei due livelli della contrattazione collettiva. Il “pacchetto Treu” del 1997 e poi la legge 30 del 2003 (la così detta Legge Biagi) introdussero altre innovazioni radicali nelle forme contrattuali e nel mercato del lavoro. Ciò che i dati mettono in luce negli anni successivi è una stagnazione dei salari. La flessibilità del lavoro “in entrata” è aumentata considerevolmente e sono esplose le forme di lavoro atipiche. Tutto ciò non si è tradotto in una ripresa occupazionale, né ha favorito un miglioramento nella specializzazione produttiva dell’industria italiana.

A riguardo trovo significative le considerazioni di un grande economista italiano – Luigi Pasinetti – scomparso di recente. In Dinamica Economica Strutturale, pubblicato nel 1993 egli scrive: 

«Se il lavoro viene posto sul mercato senza protezioni e viene commerciato come una qualsiasi altra merce, possiamo solo attenderci che il meccanismo concorrenziale dei prezzi di mercato conduca esattamente a ciò che conduce nel caso di ogni merce: ossia conduca il “prezzo” verso il costo di produzione. Nel caso del lavoro, il costo di produzione è il salario di sussistenza: questo è ciò che il meccanismo competitivo dei prezzi di mercato conseguirebbe. Gli “imprenditori” otterrebbero quindi tutto quanto risulta al di sopra della sussistenza (“sfruttamento”).  […] Sussiste effettivamente una necessità istituzionale di impedire che il sistema economico cada in una situazione nella quale il meccanismo concorrenziale dei prezzi di mercato agisca sul salario unitario nello stesso modo in cui agisce sui prezzi delle merci. La verità è che il lavoro potrebbe essere oggetto di commercio, come ogni altra merce, solo in una società di tipo schiavista. In un qualsiasi sistema economico moderno, il lavoro non è una merce, proprio perché le nostre istituzioni sono state concepite in modo tale da non consentire che il lavoro venga commerciato come una merce. […] Nel caso dei salari, non desideriamo affatto un salario unitario che rispecchi il costo di produzione del lavoro. Desideriamo un salario unitario che attribuisca a ciascun lavoratore la sua quota di reddito nazionale».

L’Unione europea sembra essere sorta su basi competitive e non solidaristiche. Questo aspetto incide anche sulle politiche del lavoro dei singoli Paesi?

A me pare che le maggiori responsabilità riguardo alle pessime politiche del lavoro attuate in Italia siano da individuare nella classe dirigente italiana. Su questo tema consiglio di leggere un aureo libretto di Antonio Calafati appena pubblicato (L’uso dell’economia. La Sinistra italiana e il capitalismo 1989-2022). A partire dal 1992, la classe dirigente italiana ha avallato l’idea che il modello tedesco di economia sociale di mercato fosse un’alternativa all’economia di mercato rilanciata negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dalla rivoluzione conservatrice di Reagan e di Tatcher. In altri termini, la Soziale Marktwirtschaft, per usare l’espressione originaria coniata da Muller-Armack, veniva presentata come qualcosa di distante dal neoliberismo. Questa parola-guida della scuola di Friburgo si ritrova nell’articolo 3 del Trattato di Maastricht (1992), che, al comma 3, stabilisce che l’Unione Europea «si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, e [proprio] su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva», modello in cui l’aggettivo “sociale”, secondo il campione del neoliberismo von Hayek, è un pleonasmo grazie al quale «alcuni miei amici tedeschi (e ultimamente anche inglesi) sembrano essere riusciti a rendere appetibile a circoli più ampi il tipo di ordine sociale che io difendo». 

Pensa che con l’introduzione dei cosiddetti green jobs nel mercato del lavoro riusciremo a contrastare gli effetti devastanti del modello capitalista sulla precarietà?

Non credo che si stia favorendo davvero la transizione ad un nuovo modello di sviluppo “verde”. Ciò che di buono era presente nel Next Generation EU sta naufragando dopo il conflitto russo-ucraino e le rivoluzioni che hanno subito le relazioni internazionali soprattutto per volontà americana. Dietro ai così detti green jobs mi pare che si celi una realtà molto debole e rarefatta. Un recente rapporto OCSE segnala che la quota dei lavori green task è molto disomogenea e non è cresciuta secondo le aspettative. 

Tra le sue ultime opere c’è “La guerra capitalista”. Possiamo dire che i principali conflitti sociali e politici dipendono anche dall’idea dominante che non ci possono essere modelli alternativi a quello neoliberista? 

Nel libro che ho scritto insieme a Brancaccio e Giammetti sosteniamo che la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani è la risultante di una lotta interna alla classe capitalista, tra capitali debitori in difficoltà e capitali creditori che tentano di assorbirli. Creditori e debitori possono convivere pacificamente ma ciò può avvenire solo by design. Quando i creditori (con in testa la Cina) utilizzano i crediti accumulati in un modo non condiviso dai grandi debitori, allora la pace vacilla. I debitori (con in testa gli USA) impongono misure protezionistiche crescenti ai paesi creditori. E ciò avviene per esempio quando i crediti sono impiegati per ridefinire gli assetti proprietari che tradizionalmente sono stati sempre sotto il controllo dei debitori. I grandi creditori e i grandi debitori si sono preparati alla guerra accumulando armi. Lo dimostra l’analisi delle spese militari degli ultimi venti anni. Le regole del commercio internazionale e del sistema monetario internazionale possono però essere ridefinite imponendo dei limiti alla tendenza verso la centralizzazione dei capitali e all’economia di guerra che essa finisce con l’incentivare. Su questo rinvio all’appello Le condizioni economiche della pace pubblicato sul Financial Times, su Le monde e su Econpoly https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2023/02/17/pace-condizioni-economiche-appello/


Nota: Stefano Lucarelli è professore di politica economica all’Università degli Studi di Bergamo; ha insegnato anche all’Università Bocconi, allo IUSS, all’Università della Calabria e all’Università di Pavia. Si interessa di teoria monetaria della produzione, dinamica economica strutturale, finanziarizzazione, economia monetaria internazionale, innovazioni monetarie (monete complementari e criptovalute), a problemi di politica economica internazionale e locale. La sua ultima monografia in lingua italiana è La guerra capitalista (con Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti, Mimesis, 2022). 


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