09 Giu Letteratura e negatività
di Francesco Muzzioli
La letteratura ha uno strano rapporto con la “cattiveria”, tanto che spesso i suoi personaggi “negativi” sono memorabili altrettanto e più dei positivi, senza che ciò comporti un minore impegno etico, anzi, al contrario, per portarlo ad una maggiore profondità.
C’è, intanto, una necessità funzionale. La narratologia – in particolare Greimas con i suoi ruoli attanziali – ha rilevato una sorta di ineliminabile rapporto speculare nella coppia di adiuvante e oppositore (e Greimas si è interrogato sui passaggi di confine tra l’uno e l’altro ruolo, riflettendo ad esempio sulla figura del traditore). La parte del “cattivo” è fondante in molti generi letterari che non potrebbero esistere senza, si pensi al romanzo d’avventura, ma anche al fantastico e al fantascientifico con i loro mostri e i loro alieni, il western, addirittura si veda una certa allegoria classica basata sullo scontro tra virtù e vizi (tipo la Psychomachia). Notiamo che ‒ a parte l’allegoria, che però oggi magari riappare mascherata in vesti fantasy ‒ si tratta di generi molto popolari. Il male e il negativo, in molti casi, hanno la precisa funzione di essere sconfitti dopo una lotta in cui stavano per vincere sull’orlo dell’estrema distruzione. È lo schema di tutti i supereroi di ieri e di oggi, con finale liberazione dall’oppressione dell’incubo. La funzione allora è prettamente esorcistica. Indubbiamente l’immaginario manicheo ha bisogno del male nelle forme di una alterità minacciosa. Il fatto che i personaggi negativi siano raffigurati al limite dell’umano se non al di là, può dispensare dall’approfondimento sulle loro ragioni; nel film d’azione il pericolo è tale che con gli avversari non è il caso di fermarsi a discutere…Allora la manifestazione del negativo è tutta a maggior gloria del bene? Francesco Orlando, uno dei più lucidi e rigorosi rappresentanti della critica psicoanalitica, ha proposto una spiegazione un tantino più complessa: la letteratura come “formazione di compromesso”. Constando che
il discorso letterario tende a lasciare, anche all’intenzione che ha torto, abbastanza spazio per accordarle magari un po’ meno di una mezza riuscita; e infliggerle quindi un po’ più di un mezzo fallimento. Ne saranno più o meno dimidiati riuscita e fallimento dell’intenzione opposta, quella che ha ragione. È improbabile che il discorso letterario tralasci di cedere la parola al nemico: sia pure temporaneamente, tendenziosamente, indirettamente, ambiguamente. E poiché il discorso resterà nondimeno uno solo, in qualche modo ambiguo dovrà diventare per intero (Letteratura e psicanalisi, in Letteratura italiana, vol. IV, Einaudi 1985, p. 583).
Per la verità, lo stesso Orlando si è fatto portatore anche di un altro modello, desunto questo pure da Freud, la letteratura come “ritorno del represso”. E qui l’esorcismo di cui sopra appare esattamente rovesciato: è il polo positivo a essere in qualche modo utilizzato per far emergere tra le sue maglie la forza corrosiva del proibito sottoposto alla censura. La letteratura, quando è degna del nome, assume allora una tendenziosa valenza trasgressiva, una fondamentale pulsione critica nei confronti dei Valori ufficiali: che poi il trasgressore venga punito (Don Giovanni) oppure venga salvato in extremis (Faust) non cambia il fascino di queste figure, non per nulla riprese da numerose riscritture tanto da diventare “mitiche”. Così nell’Ottocento il personaggio del diavolo nella letteratura fantastica con la sua spiccata tentazione dell’eros, o in poesia nei Fiori del Male di Baudelaire e nella Stagione all’inferno di Rimbaud, si dipana la lotta contro i divieti del perbenismo borghese e piccolo-borghese, per proseguire nel Surrealismo (si pensi ad un surrealista eretico come Bataille e soprattutto ad Artaud con il teatro della “crudeltà”) con l’emersione dell’inconscio liberato nell’immaginario utopico. Il ribaltamento dei valori benpensanti viene sbandierato ancora nel secondo Novecento, sempre in zona avanguardia da un autore come Giorgio Manganelli nell’affermazione provocatoria della Letteratura come menzogna. «La letteratura è immorale», proclama con lo stesso ardore con cui dall’altra parte suonerebbe l’anatema; e poi:
Non v’è letteratura senza diserzione, disubbidienza, indifferenza, rifiuto dell’anima. Diserzione da che? Da ogni ubbidienza solidale, ogni assenso alla propria o altrui buona coscienza, ogni socievole comandamento. Lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile; quante volte gli si è gettata in faccia l’antica insolenza degli uomini utili: «buffone». Sia: lo scrittore è anche buffone. È il fool: l’essere approssimativamente umano che porta l’empietà, la beffa, l’indifferenza fin nei pressi del potere omicida. Il buffone non ha collocazione storica, è un lusus, un errore (La letteratura come menzogna, Adelphi 1985, p. 218).
Dove davvero pare completa la “ripositivizzazione” del negativo.
Ora, è vero che la letteratura ha sempre corso dei rischi quando è finita sotto il giudizio della morale, a partire dalla Repubblica di Platone e poi nei roghi medievali (rischi che sembrano tornare oggi non solo nei regimi teocratici, ma anche in certe assurde applicazioni al passato del politicamente corretto), per cui ha cercato di smarcarsi attraverso proteste di autonomia, configurandosi come sfera specifica dotata di proprio metro, il giudizio estetico. E però, una volta che l’altra parte sia sottratta al discredito preventivo, non avrà troppo spazio? Non sarà soverchia la simpatia dei cattivi? «Il problema ‒ ha scritto Terry Eagleton, un critico marxista che negli ultimi tempi si è occupato molto della morale e ha scritto anche un intero libro On Evil, sul Male – è che i personaggi normali hanno tutta la virtù, mentre le figure anomale hanno tutta la vita» (How to read literature, Yale UP 2013, p. 50). Piuttosto che berci un succo di frutta con Oliver Twist non preferiremmo farci una birra con Fagin? I grandi personaggi negativi, proprio in virtù della “grandezza” che il testo gli costruisce attorno, possono giganteggiare, si pensi a certe figure shakespeariane (il peggiore di tutti è l’Aronne del Tito Andronico che alla fine, condannato a essere interrato fino al petto, conclude in un modo che non manca di una sua sostenutezza: «se ho fatto qualcosa di buono in tutta la mia vita, / di ciò mi pento dal profondo del cuore» e ovviamente agli eroi dostoevskiani. Quando il cattivo diventa protagonista (come, ad esempio, nel romanzo del dittatore) in quel suo stare al centro della scena, non c’è qualcosa che ce lo rende esemplare e quindi una quota di ammirazione che si può inserire di soppiatto perfino nell’intento più critico? Si apre, a dir il vero, un problema ancora più grave, che riguarda le finalità della lettura. Che si possa produrre un “dispiacere del testo”, ce lo dice Freud, è un’ipotesi sollevata già all’origine dalla tragedia greca, senza dover ricorrere a Kafka. Perché leggere qualcosa che non ci lascia tranquilli? Che non corrisponde alle sicurezze e alle riconferme dei buoni valori di una volta? Il nostro Leopardi, uno che effettivamente non è piacevole da leggersi, soprattutto in prosa, ci ha consegnato nella miriade di appunti dello Zibaldone un interessante ragionamento sul “lieto fine”: se l’ingiustizia viene punita, noi usciamo dal teatro soddisfatti perché tutto è sistemato, «in pieno equilibrio», e perciò con effetto «nullo». Invece se il fine è «tristo», non solo c’è una «verisimiglianza» maggiore, ma si guadagna in forza e in durata dell’effetto, perché se il dramma
lascia il vizio impunito anzi premiato, e la virtú non premiata anzi punita e sfortunata; ne seguono due bellissimi effetti, l’uno morale, e l’altro poetico. Il primo si è che l’uditore, appunto per lo sfortunato esito della virtú e il contrario del vizio, che se gli è rappresentato nel dramma, si crede obbligato verso se stesso a cangiare quanto è in lui le sorti di que’ malvagi e di que’ virtuosi, punendo gli uni col maggior possibile odio ed ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore, di compassione e di lode. (…) L’effetto poetico si è che un dramma cosí formato lascia nel cuore degli uditori un affetto vivo, gli fa partire coll’animo agitato e commosso, dico agitato e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato, prima acceso e poi spento a furia d’acqua fredda, come fa il dramma di lieto fine; insomma, produce un effetto grande e forte, un’impressione e una passion viva, né la produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto fine; e l’effetto è durevole e saldo (Zibaldone, 3453-3454).
Ho citato spesso questo brano perché mi pare davvero una convincente spiegazione del negativo in letteratura. Poiché l’adattamento funziona anche per assuefazione, l’unico modo per far girare la testa all’indifferenza è una terapia d’urto. È chiaro che una operazione effettivamente delusiva non verrà accolta nelle strategie della piacevolezza delle scritture di intrattenimento gradite al mercato. Tuttavia, se le funzioni di esorcismo della divisione manichea di buoni e cattivi e tutte le sfumature consimili di compensazione, rassicurazione, rafforzamento di identità ferree, se – dicevo – si meritano il titolo di ideologia, allora la loro delusione diventa una operazione critica assolutamente necessaria; e intendo “critica” non in senso professionale, ma in quel senso lato che pertiene anche alla sedicente creatività.
Che poi, a ben vedere, c’è la validità dell’ostensivo: mostrare la “cattiveria” senza aggiungervi nessuna deprecazione rende implicito il giudizio, che ognuno dovrà formarsi da sé; e si può scommettere che colpirà di più di un esplicito ma scontato elogio della “bontà”.
Ma, ancora, un dettaglio: proprio la creatività viene conculcata negli standard editoriali e nei generi codificati sempre più per il consumo. Ora, per tornare a Francesco Orlando, il nostro teorico psicoanalitico accostava al “ritorno del represso nei contenuti” anche il “ritorno del represso nella forma”: e ciò significa la tendenza verso la liberazione dai codici prestabiliti, il superamento dei confini tra i generi, il plurilinguismo, la sproporzione, l’eterogeneità, la parodia, ecc. ecc., secondo un intero e vario vocabolario dell’alternativa. Per una produzione di straniamento senza la quale l’esortazione morale suonerebbe prevedibile e retorica e, producendo una commozione immediata ma superficiale, rimarrebbe sostanzialmente poi di fatto lettera morta.
Che ci sia una certa “cattiveria” anche nelle forme letterarie?