09 Giu Dante Immisericorde
di Marcello Carlino
Usavano schierare su fronti diametralmente opposti quelli da leggere e quelli da non leggere: Lisez, ne lisez pas era l’elenco, volutamente provocatorio, compilato per portare scandalo, che i surrealisti esponevano nei loro esercizi pubblici, un po’ ispirandosi alla lista dei buoni e dei cattivi che gli insegnanti d’un tempo davano mandato di scrivere sulla lavagna ai più ligi e fedeli alle norme di condotta scolastica. È fin troppo chiaro che da leggere erano per i surrealisti gli autori che il senso comune e la cultura dominante intendevano per cattivi scrittori (o irregolari, o contestatori, o eslege, o disturbatori della tradizione); ed è altrettanto ovvio che, al di là di ogni provocazione programmata da Breton facendo base sui suoi manifesti, la distinzione tra il lisez e il ne lisez pas si può misurare oggi sul metro della efficacia, della utilità, della remuneratività ideologico-culturale della lettura (epperò dandosi per convenuto che il ne lisez pas va decretato senza attenuanti, oggi, a tutta la letteratura da mercato, che è la stragrande maggioranza della letteratura circolante). Chi siano i cattivi e chi i buoni, comunque, mi sembra che non possa che rimanere invariato, a tutta conferma dei sistemi di selezione del surrealismo (e dell’avanguardia del Novecento), dovendosi ritenere cattivi quelli che la koiné giudica buoni, riconoscendoli per tali sulla lavagna dell’apparato di produzione della letteratura, e per contro buoni quelli che la koiné culturale registra invece tra i cattivi, di fatto espellendoli dalla classe; e dovendosi considerare che la cattiveria è carica di risorse positive in quanto, innanzi tutto, insubordinazione alla legislazione letteraria vigente, alla convenzione sempre funzionale al consumo e prestata al potere, all’ideologia regnante che penalizza e coarta il pensiero critico.
In un quadro siffatto – e alle specifiche condizioni di cui sopra – il lisez riferito ai cattivi di genio, preferibili ai buoni ufficialmente cresimati, ha riguardato Leopardi in alternativa a Manzoni (rammentiamo una querelle di alcuni decenni fa, che ha registrato pronunciamenti opposti; è certo, nondimeno, che il nichilismo fecondo del poeta di Recanati, eversore della ideologia borghese ottocentesca e del costume dei nuovi credenti, mostra aperture straordinariamente moderne anche in chiave filosofica, a paragone del buonismo manzoniano, compensatorio e consolatorio, conveniente alla politica della borghesia della sua epoca). E, per accennare rapidissimamente ad altre contese, giochi di ruolo di analoga fattura sono stati giocati a riguardo di altre coppie, che è accaduto siano state vagliate dalla critica lungo le tappe della sua storia: Gozzano (con la sua piccola perfidia e con la sua disincantata coscienza) e D’Annunzio, rimestatore di una poetica della bontà e buonista strumentale in forza di mito (di mito si fa buono anche Pascoli, lo sappiamo), Sanguineti e Pasolini, che estetizzando e mitizzando rappresenta in festa il sottoproletariato, il Volponi di Corporale e la Morante della Storia, restauratrice del buonismo narrativo. Ma la coppia capostipite, che nel discorso sopra la letteratura italiana è stata spesso frequentata per evidenziare al suo interno forti difformità e pronunciate incompatibilità, è quella costituita da Dante e da Petrarca, come è noto a chi ha memoria di esplicite linee di tendenza, rinvenute da studiosi di prestigio nel riuso anche novecentesco della tradizione letteraria. E Dante è il cattivo, nonostante le reintegrazioni nel ruolo buonista di padre della patria che in parecchi frangenti – e nello stesso recente settimo centenario della morte – sono state operate. Cattivo nei suoi tempi e pure nei nostri perché liberatore delle forme del comico, assai indigeste al bon ton letterario; cattivo perché contravveniente nella Commedia ai generi di letteratura autorizzati; cattivo perché propositore di un linguaggio irrituale, espanso in un espressionismo ante litteram, che sovverte gli usi letterari consolidati; cattivo perché arma la sua scrittura di polemica, e di bizzosa acuzie politica, che dismette equilibrismi ecumenici; cattivo infine nella autorappresentazione di sé personaggio, pellegrino nell’aldilà, soprattutto nell’aldilà infernale (e si dice di chi si racconta in prima persona, in viaggio verso la sua redenzione, non dei diavoli e dei dannati tenuti costituzionalmente alla cattiveria).
Chiamo a testimone – uno fra i tanti – di quest’ultima specie di cattiveria il XXXIII dell’Inferno. Alberigo (poi si dichiarerà all’anagrafe del testo) scambia Dante per un nuovo dannato (perciò lo dichiara aggettivandolo crudele; e Dante senza misericordia lo prenderà in parola) e gli chiede di liberargli per un solo istante gli occhi dalla cortina di ghiaccio che cristallizza le lacrime e fa argine al pianto in cui si sversa il dolore, un pianto che preme nella testa, che stringe tormentoso. Dante accetta con una promessa fallace, da autentico falsario del linguaggio: farà davvero quel che progetta di fare se non terrà fede alla sua parola («e s’io non ti disbrigo, / al fondo della ghiaccia ir mi convegna», vv. 116-7), e tuttavia attraversare tutto l’inferno, fino ad incontrare Lucifero giù giù in Cocito, è appunto nei programmi per lui stabiliti, è un dato di fatto, è un “vero” inevitabilmente previsto che nega da subito alla sua asserzione, ipoteticamente impegnativa, il significato di una veritiera promessa. Alberigo cade nella trappola di una promessa che non è promessa, di una verità che falsifica, che inganna; e si confessa e lungamente racconta e, a beneficio dell’interlocutore, per ingraziarselo, precisa i dettagli con dovizia di indicazioni utili alla conoscenza, cosicché infine si sente in diritto di ottenere da Dante il favore richiestogli: «Ma distendi oggimai in qua la mano; / aprimi gli occhi». Al che, lapidario: «e io non gliel’apersi».
È tutto dire. Dante immisericorde si rifiuta ad un atto soccorrevole di umanità.
E non regge neanche un po’ l’autogiustificazione che segue: «e cortesia fu lui esser villano» (vv. 148-50).