Ambiente, fragilità, letteratura

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L’odierna sensibilità ambientale impone un’indagine rigorosa di quelle che il critico letterario Remo Ceserani definiva ‘convergenze’, ossia le molteplici intersezioni tra territori altri, tesi a una ‘contaminazione’ finalizzata allo sguardo ampio, alla messa a fuoco di un’urgenza che le categorie predisposte – svincolate da confluenze – impediscono di realizzare. Il rapporto tra letteratura ed ecologia si pone, in tal senso, come un dato cogente, trattandosi dell’intreccio più rappresentativo di quello sforzo volto a sondare l’innegabile fragilità del patrimonio ambientale, la sua degradazione, il passaggio – spesso nefasto – dell’uomo sulla terra. 

La scelta di campo non è peregrina, giacché le rappresentazioni poetiche e narrative costeggiano quella zona dai contorni labili che è l’immaginario, serbatoio di forme e motivi variamente ri-declinabili, impossibile da ricondurre a un grado zero e pertanto capace di intercettare paure, immagini e rimossi. Per decifrare la complessità di una natura piegata all’intervento umano è dunque opportuno ricorrere a strumenti ‘laterali’, che fungano da porta d’accesso a scenari altrimenti invisibili, destinati a muoversi sulla superficie apparentemente liscia della cronaca. 

L’immaginario, è bene ricordarlo, è una miniera profonda, sia perché contiene sintomi, spie e motivi attorno a cui si articola una trama complessa, sia perché presenta margini slabbrati, soggetti alle intersecazioni cui si accennava in precedenza, e dunque passibili di apparentamento con situazioni traumatiche, di colpa o shock. «Si è passati dai campi di sterminio allo sterminio dei campi», scriveva del resto Andrea Zanzotto, una delle voci più rappresentative della poesia italiana novecentesca, cantore delle scorie e dei detriti, capace di focalizzare la perdita imperdonabile di una bellezza ‘pura’, il massacro del paesaggio che è oltraggio alla collettività. 

La colpa, dunque, si diceva: o meglio un cortocircuito tra emotivo e razionale che nasce dalla vulnerabilità, dal prendere coscienza della frattura tra sé e il mondo, tra il nostro io e un noi globale, che è spesso ‘altro da sé’. La letteratura carpisce questo sentimento, lo rende visibile mediante un’immersione nel vuoto, adottando un linguaggio ora oscuro ora agile, costellato di immagini che solleticano la coscienza, conducono a un’iniziazione che è il fine ultimo del mistero, di ogni narrazione slegata dall’immediato. 

In Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2019), Emanuele Trevi scrive che «dove c’è potere c’è mistero, ma sia il mistero che il potere, se se ne vuole parlare, o anche se intendono manifestarsi, devono prendere l’aspetto di un racconto. Nel racconto, inteso come mistero, è sempre il potere che si rende evidente». Così, all’indomani del miracolo economico – o, come nel caso di Zanzotto, in parallelo allo «sviluppo scorsoio» del suo Veneto, spostato un po’ più in là – gli intellettuali e gli autori tentato di ‘iniziare’ il pubblico, di rendere evidente, tramite un percorso mediato, la natura del potere degradante, quello che Pasolini definiva ‘criminale’, ‘piccolo potere’ manovrato dal «Potere reale», oscuro e pervasivo:

«Di tale “potere reale” noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali “forme” esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che lo hanno preso per una semplice “modernizzazione” di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola». 

Il vuoto di potere in Italia, più noto come L’articolo delle lucciole, è un attacco sferzante contro la DC, partito colpevole di non aver registrato, pur di non perdere il potere, i mutamenti avvenuti nella società e nella «coscienza del popolo italiano, fino a un’irreversibile degradazione». Ma è anche uno dei testi che meglio fissano il «genocidio» culturale dell’Italia, una rappresentazione mediante metafora – o sineddoche, come rileva Niccolò Scaffai riferendosi all’ambiente preindustriale – della violenza sull’ambiente, di uno ‘sviluppo’ senza ‘progresso’ fondato sulla fragilità dell’identità nazionale e altrove fissato da Luciano Bianciardi (La vita agra, 1962), o ancor prima da Carlo Emilio Gadda (Le meraviglie d’Italia, 1939), poi da Ottiero Ottieri, Anna Maria Ortese, Alfredo Todisco e altri autori dall’immaginazione «antropomorfa», come affermava Italo Calvino nelle Lezioni americane (1988), senza la quale non può esserci conoscenza del mondo intorno a noi. 

Così, ogni tentativo, ogni immagine letteraria – sia essa desunta dal lessico ecologico o solamente capace di abbracciare il vissuto (politico, sociale, umano) – diviene la migliore porta d’accesso all’invisibile, alla catastrofe totale che stiamo ancora attraversando. Un grido d’allarme, sia consentito, che fissa il trauma, lo sconcerto, l’urgenza di fare i conti con le nostre fragilità.


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