Fragili di tutto il mondo, uniamoci!

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Il secondo numero della nuova serie di Malacoda propone la fragilità come parola-chiave di questo tempo.

Se nel primo, in un’epoca di odiatori, di nuove violenze reali e digitali e di guerra abbiamo letto la crisi del mondo con la password della cattiveria, ora Malacoda propone la fragilità come interpretazione di una fase inedita, e molto acuta di crisi di civiltà, come ci dice Massimo Cacciari, in un’intervista che uscirà domani su questo sito.

La novità non è che esistano i fragili, e neppure che il potere sia fragile – giacché anche il capo più acclamato siede sempre sulle spalle di un popolo che prima o poi, presto o tardi lo farà cadere –. Ma è che il sistema che governa il mondo è fragile.

“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” notava Antonio Gramsci nel 1930 in carcere. Siamo in un interregno: tra un modello capitalistico predatorio senza regole, che in pochi decenni ha provocato una crisi climatica senza precedenti, e che ha allargato la forbice tra una piccola minoranza di forti e una stragrande maggioranza di fragili, e un mondo futuro di cui si stentano a vedere i soggetti, gli assetti, gli equilibri.

È proprio l’idea di forza titanica dell’uomo che dietro le grandi innovazioni di macchine e tecnologie degli ultimi due secoli si è fatta strada ad entrare irrimediabilmente in discussione. In quell’idea, il sogno dell’immortalità dell’uomo, dell’eterna giovinezza, di una perfezione alla portata di tutti si è trasformato in un incubo distopico. È solo la consapevolezza della propria mortalità che, sia per chi ha una fede religiosa che per chi crede solo nella finitezza terrena, può educare a trovare nella fragilità la propria forza, come di recente ha scritto Vincenzo Paglia ne “La forza della fragilità” (Laterza, 2022). “Il fragile – scrive Vittorino Andreoli ne “L’uomo di vetro”, Rizzoli, 2008 – è l’uomo per eccellenza, perché considera gli altri suoi pari e non potenziali vittime, perché laddove la forza impone, respinge e reprime, la fragilità accoglie, incoraggia e comprende”.

In qualche modo., la pandemia ha riportato nell’agenda quotidiana la sofferenza, la malattia, la lotta dei fragili, il rapporto con la morte, scoperchiando le grandi menzogne superomiste di questo tempo.

Paolo Crepet, per Malacoda, ci parlerà – intervista in uscita – della grande questione adolescenziale, dei giovanissimi, in questa stagione. Di come proprio una generazione di genitori che ha coltivato l’ideologia dell’eterna giovinezza, e che è rimasta ingannata sulla strada del lifting del corpo e di quello, ancora più ingannevole, dell’anima, non abbia saputo produrre un’idea educativa nuova.

Questo vale non solo per la famiglia – travolta negli anni del confinamento pandemico – ma anche per la principale conquista di civiltà della rivoluzione industriale, e cioè la scuola. Il carattere gerarchico, iper-competitivo e frontale dell’insegnamento, fa a cazzotti con la generazione digitale che sente i device come estensioni del proprio corpo. La didattica a distanza non ha funzionato, ma non si può pensare di tornare ora all’idea della scuola pre-pandemia come palestra di competizione, come uno Squid Game in cui non si contano più i caduti. Si comincia a discutere finalmente di una scuola più orizzontale, non solo fabbrica di crediti. Occorre un pensiero alto e nuovo sulla scuola, capace di fare della condivisione della rete la propria forza. 

E, ancora, con lo smart working, e con l’algoritmo che controlla e schiaccia la forza umana, cambia di natura il lavoro: si riduce, si comprime, cambia il rapporto tra il tempo di lavoro e il tempo di non lavoro; ma al tempo stesso si apre la possibilità di dare più tempo a sé stessi, al benessere umano, che non può allocarsi solo nella produzione di beni o servizi. In questa tenaglia chi soccombe, come a Brandizzo, con la strage di operai, oggi sono il lavoro umano, la fatica, lo sfruttamento che aiutano a realizzare un compulsivo bisogno, sempre più sfrenato, di velocità e di competizione.

La fragilità della democrazia e dei sistemi rappresentativi è oggi uno degli aspetti più inquietanti di questo tempo. Un numero crescente di fragili non si riconosce più in queste Istituzioni: non vota, chiede forza, sicurezza, addirittura comando, o addirittura pratica odio e violenza.

Il tema, qui trattato da amiche e amici di molti orientamenti, e che allarga la visuale a tanti aspetti che rimangono nascosti, è come riconoscere la forza della fragilità. Come immaginare, è ancora Paglia che scrive, un’alleanza dei fragili.

Un corpo intermedio, una comunità, una produzione di cultura che riporti l’essere umano al suo posto nel mondo di oggi, in pace con il vivente umano e col vivente non umano, e con le risorse che sul pianeta terra garantiscono l’evoluzione della vita. San Francesco, com’è stato notato da Pietro Maranesi (“La fragilità in Francesco d’Assisi”, ed. Messaggero Padova, 2018), rifletteva sulla sua esperienza di povertà, vulnerabilità, miseria e fragilità come via di libertà, di realizzazione e di «perfetta letizia». “Solo le nostre fragilità possono aiutarci a entrare nel nostro abisso e trovare in esso la via della vita”.

In qualche modo, al giorno d’oggi, anche quel “Proletari di tutto il mondo, unitevi!” di Karl Marx e Friedrich Engels potrebbe suonare bene – in una civiltà in cui il lavoro è così cambiato -, liberandosi dalle catene del consumismo sfrenato, in un “Fragili di tutto il mondo, uniamoci!”


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