11 Ott Possiamo dire di NO
intervista a Paolo Crepet
a cura di Simone Oggionni
Abbiamo deciso di dedicare un numero monografico della rivista al concetto di fragilità. La nostra è una scelta culturale, esistenziale, persino politica. Crediamo nella fragilità, nel diritto di essere fragili in una società che propone modelli irreali di superuomini e superdonne. Forti, in carriera, esteticamente perfetti, anche se deresponsabilizzati sul piano sociale e interpersonale (e su questo torneremo più avanti). Noi vorremmo difendere il diritto di essere fragili e ovviamente crediamo nella possibilità di uno scatto e di una reazione, nella misura in cui la fragilità fa male e diventa un macigno sulla capacità di ciascuno di alzarsi, esprimersi, agire, vivere. Crediamo che la chiave di questa reazione sia collettiva, perché la vera risposta al dolore della solitudine è la solidarietà, è nella possibilità di offrire alle fragilità di ciascuno l’orizzonte di un riscatto che impegna una dimensione non soltanto individuale.
Partirei da qui, dalle due domande che sono contenute in questo ragionamento soltanto abbozzato. Ha senso, secondo lei, una fragilità di cui non colpevolizzarsi, come opportunità, come dimostrazione di irriducibile umanità? E in secondo luogo: può essere la dimensione collettiva e sociale, l’orizzonte di un riscatto collettivo, un antidoto alla fragilità atomizzante, annichilente?
Sì, durante la pandemia ho scritto un libro proprio su questo tema. Io l’ho chiamata “vulnerabilità”, ma il concetto è identico. Ho sempre pensato — e ho pensato a maggior ragione in quei mesi di grande difficoltà, personale e collettiva — che la fragilità fosse una componente molto interessante dell’umanità. La non fragilità è abbastanza scontata. La fragilità invece è variegata, si può interpretare in molti modi. Ho sempre pensato che le persone fragili fossero interessanti e quelle non fragili fossero banali. Quindi sono completamente d’accordo: per me è molto evidente quello che ci stiamo dicendo, forse per qualcun altro non lo è.
In quel libro, scritto appunto nel 2020, lei scriveva che l’esperienza del lockdown ci consegnava l’opportunità di riflettere su di noi, di rallentare e prendere il fiato. Ma esprimeva anche il timore che «passata la nottata tutto potesse ricominciare esattamente come prima». A distanza di tre anni, come è andata? Abbiamo ucciso il virus dell’arroganza, di quel delirio di onnipotenza che ci aveva annebbiato le menti prima della pandemia, oppure siamo ancora al punto di partenza?
È andata male. Io non facevo una previsione ottimistica ma speravo che potesse andare diversamente, che noi imparassimo anche ad accettare e a riconoscere la nostra fragilità. Invece il rigurgito così reattivo rispetto a tutto ciò che è accaduto (anche alle norme che ci siamo dati, penso al lockdown, penso ovviamente alla chiusura delle scuole e a molto altro) ha prodotto l’effetto opposto. Siamo passati rapidamente dall’accorgerci di quanto fosse bella la fragilità a quanto dovesse essere odiata. Insisto su questo concetto: quello che vediamo e ascoltiamo, che leggiamo nella cronaca quotidiana, è davvero una variazione sul tema dell’odio, del disprezzo. Dunque un’articolazione opposta a ciò che noi chiamiamo fragilità.
Vorrei rimanere ancora sull’esperienza del lockdown, che è stata una scelta dovuta e dal mio punto di vista inevitabile, sul piano della risposta politica e pubblica, a un inedito disastro sanitario. Però come lei ha avuto modo di dire in più occasioni, per i ragazzi e i giovanissimi (penso soprattutto agli adolescenti) è stata un’esperienza afflittiva, punitiva. Un’intera generazione, chiusa in casa, si è trovata piegata sul proprio cellulare. Quindi alla pandemia si è sommata l’esperienza delle nuove tecnologie che si sono imposte negli ultimi anni. Quali sono gli effetti psicosociali del convergere di questi due fattori sui giovani? Si può dire che il mix abbia radicalizzato la tendenza, già diffusa negli ultimi venti-trent’anni, alla individualizzazione dei problemi e più in generale della soggettività, dei processi di soggettivazione? Che è poi l’altra faccia di un analfabetismo relazionale che non consente forse di cogliere più il senso di quei valori semplici ma fondamentali (l’amicizia, l’amore, la felicità, la bellezza) di cui lei ha più volte parlato nei suoi libri.
Penso che lei abbia ragione. Credo che si tratti di una evidenza. Ovviamente la pandemia ha avuto uno starting point preciso e una fine più sfumata ma altrettanto decifrabile. La tecnologia digitale viene evidentemente da molto prima, e si è affermata con una grandissima gradualità. Non so se si possa usare il verbo “imporre”, perché accredita alla tecnologia digitale una strategia, che io non vedo così chiara. Non credo che da Steve Jobs si volesse arrivare a questo. Da «stay foolish» siamo passati a «stay normal» e, forse, a ben guardare, a qualcosa di ancora più avvilente. Lui parlava di creatività, di una tecnologia al servizio della possibilità di articolare meglio le nostre capacità relazionali e non invece della tecnologia come fine o stemperamento di queste stesse qualità sociali. Che i tempi siano molto diversi, dunque, è ovvio. Che si sia in qualche modo realizzata — per usare la vecchia metafora politica — una sorta di convergenza parallela tra i due fenomeni, è assolutamente vero. L’una e l’altra cosa si sono trovate a coesistere e hanno prodotto somme di risultati che sono quelle che stiamo descrivendo. La tecnologia, come è stata concepita recentemente, vive di solitudine, propone solitudine e produrrà ancora di più solitudine nel futuro, quando i visori di grandi aziende saranno diffusi a prezzi accessibili e diventeranno fruibili come gli smartphone. Oppure quando l’intelligenza artificiale sempre più non ti farà andare in biblioteca a cercare le fonti ma elaborerà, con un semplice clic, una tesi di laurea accettabile, con tutto ciò che ne consegue anche sul piano della proprietà intellettuale, della quale i tribunali si occuperanno probabilmente nei prossimi decenni. Dalla DAD allo smart working il passo è brevissimo, dagli strumenti di isolamento al volere essere isolati il passo è già un po’ più lungo e riguarda sempre una parte. Vede: io vorrei evitare di sbagliarmi e di trattare le generazioni come se fossero categorie sindacali. È evidente che i ragazzi e le ragazze oggi utilizzino le tecnologie in maniera diversa, vivano vite in maniera diversa. Non metto in dubbio neanche la possibilità che facciano cose totalmente controcorrente rispetto alla vulgata. Credo però che sia sempre più difficile pensare con la propria testa, essere consapevoli che ognuno di noi è unico, che il consenso è un pericolo enorme e che replicare le idee non significa innovazione. Pur essendoci controtendenze, noi dobbiamo guardare innanzitutto alle tendenze e al vero e proprio cambiamento antropologico cui abbiamo assistito in questi anni attraverso la tecnologia. Parlo di cambiamento antropologico perché la tecnologia cambia il modo di vivere e non solo la possibilità di fare la strada effettivamente più breve che ti indica Google Maps. Anche se, persino questo, a ben guardare, è un cambiamento antropologico, perché per esempio, ti impedisce di sbagliare e sbagliare strada è molto importante nella vita. Sbagliando strada forse incontri un ristorante, una trattoria che non avevi messo in conto di trovare, un paesaggio che non avevi previsto. Lo sbaglio non è un errore. Come dicono gli inglesi, error e mistake sono due cose diverse. Da una parte c’è un errore che fa parte di una sorta di automatismo sbagliato, dall’altra parte c’è un incedere attraverso cadute e capacità di rialzarsi, che invece è proficuo ed importante.
A proposito di errori, c’è anche un errore che si compie nel rapporto tra le generazioni. Lei lo ha sottolineato più volte e io sono molto d’accordo. Le fragilità dei giovani sono anche espressione di un problema di fondo che riguarda le istituzioni formative, i principi dell’educazione e dunque il ruolo e il comportamento degli adulti. Non ci sono soltanto il lockdown o il visore, ma esiste anche una crisi più profonda che riguarda, per esempio, il principio di autorità e i soggetti che dovrebbero incarnarlo, che prende la forma innanzitutto di un atteggiamento deresponsabilizzante nei confronti dei ragazzi e deresponsabilizzante rispetto ai doveri degli adulti. Come si può immaginare che una generazione come questa — con i problemi che abbiamo descritto — inverta la rotta nell’educazione dei figli che verranno?
È il principio della nausea a spiegare certi cambiamenti. La cioccolata è indubbiamente buona, dunque saremmo tentati di mangiarne chili. Per fortuna però il nostro organismo, e anche la nostra organizzazione mentale, lo psichismo, percepiscono il limite, il troppo pieno. Come una vasca da bagno, che fa fuoriuscire l’acqua quando supera una certa quantità. Questa cosa si chiama nausea: è un concetto biologico ma è anche un concetto mentale, perché la nausea si avverte a livello fisico e a livello psicologico. Raggiungere la nausea ti fa cambiare, innesca cambiamenti. A questo si somma il fatto che in realtà i grandi cambiamenti arrivano alla spicciolata, non con i grandi numeri. Non si cambia un popolo ma si cambiano alcuni individui e questi individui cambiano perché loro stessi hanno un’attitudine al cambiamento. Le faccio un esempio più collettivo. Lei sa perfettamente che se noi facessimo la storia degli ultimi cent’anni di questo Paese noteremmo che i cambiamenti avvengono per grumi. Questi grumi sono luoghi temporali in cui le persone – persone che avevano già un’attitudine al cambiamento – si influenzano e, attraverso una spinta in qualche modo più collettiva, riescono a modificare le cose. Il cinema italiano è nato così. Le avanguardie artistiche sono nate così, con Antonioni che andava a vedere una mostra di Mark Rothko e poi ne traeva le conseguenze. Gli stessi Rolling Stones hanno scritto Paint it, black dopo avere visto un quadro di Rothko: quelle stesse contaminazioni magari dieci anni dopo non avrebbero prodotto nulla. In quel momento viene fuori quel brano, invece, perché c’è una combinazione fra ascesa e nausea. La nausea decreta il nostro inabissarci verso la consuetudine, la ripetitività e poi capita l’ascesa: sentire una musica straordinaria eccita il cervello, che probabilmente riesce a scrivere qualche pagina certamente più interessante di quanto non avrebbe fatto tre anni prima o cinque anni dopo. Questi incontri neuronali, questi chiasmi, sono i cambiamenti. Non sono prevedibili dal punto di vista storico. Voglio dire: nessuno aveva previsto il nazismo, l’ascesa del nazismo nel modo in cui è avvenuta. Però è avvenuta.
Certo la storia non prevede né può essere prevista, però si possono individuare delle predisposizioni, dei contesti, terreni fertili per azioni che poi si squadernano. Per rimanere ai cambiamenti e ai chiasmi a cui lei ha fatto riferimento, si può dire che forse oggi, rispetto al cuore del Novecento, esistono meno terreni fertili che possano fare fiorire questi incontri e determinare cambiamenti? Nel senso che se la dimensione della solitudine è quella che abbiamo descritto, questa tendenza verso l’isolamento e il solipsismo non produce rotture ma inquietudini che si solidificano soltanto. Il rischio verso il quale andiamo, allora, è che questa volta anche le avanguardie e le spinte trasformative non incontrino a livello di massa un terreno favorevole. Non so. Ce lo dirà la Storia.
Io ho cominciato molti anni fa, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, a scrivere partendo da una mia esperienza clinica e di ricerca sulle condotte suicidarie dei giovani. È chiaro che la genesi era una solitudine, di quelle che si chiamano non sociali. Quella sociale è anche positiva, nel senso che per potare la vigna devi essere solo e stai anche abbastanza bene solo con il tuo ettaro di terra. La solitudine emotiva, che ti fa sentire solo magari anche in un gruppo di amici o in un’aggregazione più vasta, contiene rischi maggiori, con tutta evidenza. Cosa possiamo percepire di effettiva differenza con il passato? Io credo che la differenza fondamentale sia nella capacità di duplicazione di un sentimento. Il dramma dell’eroina è stato un dramma della solitudine, anche trainato da culture aggregative: si pensi al rock e all’uso di sostanze che in qualche modo veniva veicolato da una spettacolarizzazione della morte nella quale è immersa la grande epopea del disagio giovanile, che si è avvalsa delle droghe appunto come strumento di ambientamento personale. Da Woodstock finivi in un sottoscala, anche se Woodstock lo hanno celebrato tutti e il sottoscala evidentemente no. I miei coetanei morti sono tutti morti tragicamente soli. Quindi potremmo dire che non c’è nulla che cambia, che è tutto già successo. Ma è una retorica consolatoria perché in realtà non è affatto così: la dimensione social di oggi è completamente a-social. Sei solo con Instagram, ti fai un selfie e non sai cosa ti rimane. Sì, è vero: puoi essere a una festa ma è comunque fondamentalmente un atto di solipsismo. E questa dimensione è stata creata, pensata, sviluppata e diffusa sul mercato proprio perché quella condizione umana, cioè la solitudine, fosse replicabile e influenzabile. Questo è il grande cambiamento a cui assistiamo, che sta nell’altoparlante potentissimo che abbiamo tra le mani. Le faccio un altro esempio banalissimo: negli anni Ottanta un sociologo francese scrisse un libriccino in cui dava istruzioni su come ammazzarsi, un vero e proprio manuale, che venne proibito dalla magistratura in Italia e fu la sua fortuna, perché come sempre accade con il proibizionismo il divieto moltiplicò la circolazione. Bene: fu un vero e proprio caso letterario ma non penso che sia stato la causa di chissà quanti suicidi. Non penso che le cose avvengano così: leggi il libro e ti ammazzi. Il messaggio non è mai diretto, l’umanità non funziona psicologicamente per causa ed effetto. Per l’uomo, c’è sempre di mezzo il dubbio, che demolisce la certezza matematica del rapporto tra causa ed effetto. A maggior ragione oggi, la comunicazione è molto complessa, sofisticata. Io non ti dico esattamente cosa devi fare ma ti dico che puoi vivere in questo modo e poi lo fai tu, con una sorta di kit che ciascuno si monta a proprio piacimento. I ragazzi e le ragazze che si chiudono in camera e che rimangono mesi ed anni senza legami sociali non sono prodotti di un manuale che trovi su Google. Nessuno ti dice di fare così però lo fai e i casi di Hikikomori sono centinaia di migliaia in tutto il mondo.
Un altro grande tema che è influenzato da questo cambiamento è il tema della sensibilità e della insensibilità, dell’indifferenza. È del tutto evidente che stiamo remando verso l’indifferenza e l’insensibilità ma nessuno ce lo sta chiedendo. Nessuno youtuber oggi direbbe: «siate insensibili». Semplicemente lui lo è e tu impari a esserlo. Non attraverso ciò che fa, il che è del tutto indifferente, ma attraverso come lo fa, che è del tutto pregnante.
Questo rende anche molto più complicato mettere in campo strategie reattive sul piano generale.
Certo. Cosa fai in un liceo? Togli gli smartphone improvvisamente ai ragazzi? Non funziona così, il problema è molto più grande. Questa dialettica on/off è molto povera, ma la verità è che noi non abbiamo strategie. Contro Instagram è stato intentato anche un processo da parte della Commissione del Senato americano ed è finito a tarallucci e vino. Instagram ha fatto spallucce: non è colpa nostra il body shaming, il nostro è solo uno strumento. E vaglielo a dire oggi a chi immette sul mercato uno strumento che di fatto rischia di isolarci ancora di più! La risposta sarebbe che il visore serve per vedere i film, ed è iper-tecnologico, 4k, con un audio spaziale. Senti anche gli odori! Cosa vuoi di più? E noi gli diciamo, o dovremmo dirgli, che la vita è un’altra cosa. Questa è l’unica risposta che io cerco di dare a chi me lo chiede: che la vita è un’altra cosa.
Sono d’accordo. Dopodiché c’è sempre una cornice nella quale si colloca la nostra rivendicazione di umanità, di una vita oltre la tecnica, ed è la cornice del sistema economico. Non voglio essere dogmatico, ma tutto questo entra direttamente nel processo di valorizzazione del capitale e, a monte, nel meccanismo di accumulazione del capitale. Non stiamo parlando in astratto di concetti filosofici.
Questo è il nuovo mondo che riduce anche la politica e la politica internazionale a una più piccola cosa. I più pagati top manager delle big tech sono sovrastanti rispetto agli accordi o ai disaccordi tra USA e Cina, non si interessano moltissimo di cosa dice l’amministrazione americana e neanche così tanto di cosa significa la via della Seta. Prendono i loro aerei privati, vanno a Pechino quando vogliono e tornano a San Francisco quando vogliono. E fanno affari perché in realtà i loro affari parlano a un mondo che vuole essere nutrito di questo. Ogni tanto vado a vedermi i video di un blogger molto noto, credo sia giapponese, che fa aggiornamenti sui nuovi prodotti tecnologici. È interessante vedere come presenta l’ultimo modello dello smartphone più alla moda, confrontandolo con il precedente. La differenza che questo signore sottolinea essere quasi strategica è che i tasti laterali sono 3 mm più bassi. Chiunque direbbe: ma cosa significa? Il dibattito che lei trova sulla rete credo che nemmeno un surrealista avrebbe potuto concepirlo! Se si confrontano le fotografie sono uguali, tu non puoi vedere il millimetro di differenza ma se non lo vedi vuol dire che non capisci la tecnologia e che il futuro, in realtà, è invisibile. L’idea di trasformare l’umanità in una massa — anche se ci sono sempre le eccezioni, le avanguardie, gli eretici, per fortuna — è una realtà: c’è una gran massa di persone che in qualche modo è attratta da un futuro inesistente. Siamo in una nuova era del capitalismo che va al di là del concetto di marketing. Questo non è più neanche marketing, è un semplice nonsense. È come se io e lei da un’ora stessimo parlando di dov’è posizionato il tasto on/off sul suo telefonino.
Mi vergognerei a parlarne anche soltanto un minuto.
Anch’io mi vergognerei, però ci sono milioni di persone che mentre noi dissertiamo di cose assolutamente straordinarie, parlano del nulla. Per questo il mercato è sul nulla. Non è mai successo prima d’ora che il mercato fosse basato sul nulla.
Non siamo forse di nuovo di fronte a bisogni indotti, con l’unica differenza che in questo caso sono bisogni indotti completamente insensati?
Ma qui non c’è più neppure il bisogno. Siamo a una induzione senza bisogno! Perché non è un suo bisogno sapere dove mettere la sua falange sul lato del telefono, non è un suo bisogno, nemmeno indotto, perché non c’è. Sarebbe indotto se lei non avesse mai pensato a dove è l’on e l’off e chi lo vende glielo spiegasse per farla diventare un buyer straordinario. Oggi non è così! Forse l’aveva capito prima di tutti Antonioni in quella meravigliosa scena di Blow-Up. Quella in cui i ragazzi giocano una partita di tennis senza racchette, senza palline, senza niente. Noi oggi stiamo giocando precisamente quella partita di tennis.
È una immagine fantastica. Solo un’ultima osservazione e un’ultima domanda. Dicevo all’inizio che il nostro credere nella fragilità, la nostra riflessione sulla fragilità, è persino una scelta politica. E però se guardiamo da vicino la politica non esiste nulla di più distante dalla fragilità. Secoli di storia del pensiero politico e di pratica hanno descritto e interpretato la politica (da Hobbes a Machiavelli, fino a Gramsci) come regno della forza, tempo e spazio fisico della potenza. Addirittura hanno praticato la politica come libido di potenza, delirio di onnipotenza. E invece la vita è tutt’altro, l’esistenza nel quotidiano è tutt’altro, fatta di fragilità, timore, angoscia, debolezza, dolore, solitudine. Cosa ci dice questa discrepanza (che a me pare costitutiva, ontologica) tra la politica e la vita, tra la potenza della politica e la fragilità della vita? Non so se sbaglio, ma temo che il problema della politica sia ancora più profondo della sua insufficienza contingente (una politica che oggi manca, per esempio, di quei luoghi di aggregazione che potrebbero essere un’alternativa valida per quelle centinaia di migliaia di ragazzi sono chiusi in camera di fronte allo schermo del loro pc). Noi che continuiamo a sperare e a pensare che sia ancora possibile un riscatto collettivo, un’uscita collettiva dalla solitudine, ci accorgiamo che anche la politica, in quanto tale, forse non è sintonizzata e non riesce a sintonizzarsi sulle frequenze della vita.
Nel mio ultimo libro, Prendetevi la luna, ho parlato di quell’ex Primo Ministro neozelandese che quest’inverno ha semplicemente premuto il tasto quit. Nel fluire delle cose c’è il quit. C’è la nausea che ti fa cambiare ma c’è anche il quit. Il politico (la politica) che dice arrivederci, voglio un’altra vita, a me piace molto. È un’estrema possibilità che la libertà ci concede. Daniel Day-Lewis, un grandissimo attore, a un certo punto della sua vita, al massimo della sua notorietà, va a trovare degli amici a Firenze e decide, passando davanti alla bottega di un calzolaio a Santo Spirito, di chiedere se avesse bisogno di una mano. Questo calzolaio non capisce bene, parla un inglese molto primitivo, però effettivamente ha bisogno di qualcuno che gli faccia da garzone. Day-Lewis, l’uomo più desiderato di Hollywood, living legend del cinema americano, starà lì quasi un anno a spaccarsi letteralmente le mani per infilare aghi e cucire le suole di magnifiche scarpe fatte a mano. Lo immagino, nauseato da Hollywood, dalle attrici, dai produttori corrotti, dai registi da quattro soldi, da sceneggiature scritte in due giorni, scegliere di cambiare vita nella maniera più improbabile. Al di là di quello che fai è la possibilità che ti dai di viverti una vita ed esattamente tutto il contrario. Questa è la potenza rara e cristallina della libertà di essere se stessi.
E la forza di immaginare una via d’uscita, un’alternativa a una vita (una politica?) che non ti soddisfa più, che non ti corrisponde più.
È l’idea che noi possiamo dire di no, che la nostra vita non ha un prezzo come qualcuno invece ha continuato a dirci per trent’anni. Non è così. Si può dire «so what?» e andarsene, con gentilezza, uscire dal palcoscenico. Credo che sia una metafora molto bella.
Davvero molto bella. Viene voglia di provare.