29 Ott La sostenibile fragilità dell’essere
di Paolo Marcesini
“Occorrono troppe vite per farne una”, scriveva Eugenio Montale.
E l’unica che abbiamo è fragile, maledettamente fragile. Ma noi facciamo finta di non saperlo e su questo malinteso ci giochiamo tutti i paradossi della nostra vita, pubblica e privata, intima e collettiva.
Perché noi siamo la nostra fragilità.
Soprattutto nel rapporto con la natura che ci circonda. Comandiamo noi o comanda lei? Nella battaglia degli sconfitti alimentata dal dubbio, vince l’instabilità, la mancanza di equilibrio, l’insostenibilità, la crisi che alimenta altre crisi, la mancanza di pianificazione, l’irritante consapevolezza di non voler fare le scelte giuste.
In altri termini, per vivere in armonia con il paesaggio che ci circonda, sapremmo in teoria cosa fare. Abbiamo persino gli strumenti per farlo. In pratica però non lo facciamo.
La crisi climatica, quella energetica, la guerra, la fine annunciata delle materie dall’overshoot day e la trasformazione digitale pongono troppe domande rimaste senza risposta. E le domande irrisolte rendono il nostro tempo complesso e incerto. Sbagliando la chiamiamo transizione, una sorta di salvacondotto dal tempo indefinito. Ma quanto dura una transizione?
Preferiamo da sempre curare gli effetti piuttosto che le cause. Lo abbiamo fatto con le risorse del pianeta, nascondendo la testa sotto la sabbia delle esigenze della produzione e della retorica del mercato. Perché in fondo è sempre più conveniente trovare la cura per il cancro che prevenirlo. Da qualche anno abbiamo iniziato con la terapia della sostenibilità ma sappiamo che se non iniziamo seriamente con la prevenzione riducendo drasticamente il nostro impatto ambientale, nessuna terapia potrà salvarci dalle metastasi dell’insostenibilità.
Vediamo il problema, ma lo ignoriamo.
La nostra fragilità razionale ed emotiva nei confronti dell’ambiente, della storia, del progresso, della tecnologia diventa la metafora della sconfitta scritta nel codice genetico della nostra identità.
Prendiamo i dati dell’Agenda di Parigi per lo Sviluppo Sostenibile, l’impegno sottoscritto da tutti i paesi del mondo nel 2015 che si basa su 17 obiettivi, gli SDGs e 169 target di carattere economico, sociale, ambientale e istituzionale che ogni Stato si è impegnato a conseguire.
Il recente rapporto Onu che ne calcola l’attuazione dimostra come alcuni Paesi, ahimè pochi, abbiano preso gli impegni con grande serietà e altri (la maggioranza e tra questi purtroppo l’Italia) stiano invece tornando indietro.
D’altronde, si dice usando sempre il canone della fragilità, i problemi sono tanti, impossibile curarne tutte le cause, prepariamoci semmai a fronteggiarne gli eventuali effetti.
Il documento delle Nazioni Unite mette nero su bianco un dato: per il 50% degli SDGs il progresso è insufficiente o a rischio, per il 30% (specialmente quelli relativi alla povertà, alla fame e alla crisi climatica) la situazione è stagnante o addirittura peggiorata rispetto a sette anni fa.
In una parola, malgrado le buone intenzioni e i proclami ottimistici delle varie Cop che si sono succedute negli anni (le Conferenze delle Nazioni Unite dedicate ai cambiamenti climatici), rischiamo di non raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030.
E questo sappiamo che sarebbe davvero un autentico disastro.
L’uomo insomma è troppo fragile. Incapace di assumersi la responsabilità del cambiamento, preferisce subirlo. Non è nemmeno una novità. Lo è sempre stato.
Il cannocchiale di Galileo permetteva di vedere una nave due ore prima dell’occhio naturale. Era la scienza che prevedeva il futuro. Peccato che il cannocchiale fosse già stato inventato nei Paesi Bassi e si potesse trovare sulle bancarelle di mezza Europa. Lo scienziato pisano aveva rubato l’invenzione di altri? Diciamo che l’aveva decisamente migliorata e l’aveva venduta molto bene. E aveva ragione, il suo cannocchiale era venti volte più potente della vista umana.
Una notte del 1609 Galileo punta il suo cannocchiale verso il cielo e vede il volto rugoso della luna, la Via Lattea e gli “Astri Medicei”, i quattro satelliti di Giove. Quella notte l’osservazione del cielo si era trasformata in una vera e propria nuova disciplina scientifica: l’astronomia. Una scienza che confermava le tesi matematiche di Copernico. È la terra, con gli altri pianeti che girano intorno al sole. Avevano torto Aristotele e il sistema tolemaico. La terra non è il centro dell’universo. Eppur si muove…
Ma Galileo aveva visto quello che non doveva vedere. E lo aveva persino scritto.
La storia è nota. Ci sarà un processo, l’ammissione di colpa, l’abiura, la condanna al silenzio. Era il 1633, la riabilitazione voluta da Papa Giovanni Paolo II arriverà solo nel 1992, quattro secoli in ritardo rispetto al progresso della storia dell’umanità e dopo 11 anni di un lunghissimo processo di revisione.
L’abiura di Galileo fu un atto di fragilità?
Bertold Brecht dedica alla vita dello scienziato forse il suo testo teatrale più importante. E lo scrive da uomo in fuga dal nazismo. L’abiura di Galileo per lui è solo un atto di sopravvivenza per uno scienziato impaurito che voleva far comprendere al popolo la meraviglia della scienza. Galileo era un rivoluzionario progressista, un eroe. Poi nel 1947 l’opera debutta a New York. E il drammaturgo tedesco cambia idea. D’altronde tutte le sue opere erano considerate dei “tentativi”, dei work in progress, nessuna novità. Ma in questo caso la frattura con quello che aveva scritto nella versione precedente era profonda.
Cosa era successo? Aveva visto diventare la scienza nemica del popolo. Era stata lanciata la prima bomba atomica, aveva visto il dramma, la follia, l’apocalisse, l’inferno.
Robert Oppenheimer, di cui si parla molto in queste settimane per il film di Christopher Nolan, il fisico che con il Progetto Manhattan è stato l’inventore della bomba atomica, dopo Hiroshima e Nagasaki chiese al mondo di rinunciare all’idea stessa di bomba. Quella scelta aveva diviso la storia. La scienza aveva perso la sua innocenza.
Il cannocchiale di Galileo non era più la metafora della meraviglia e della verità della scoperta. La tecnologia da quel giorno non potrà mai più essere neutra. Guariamo le malattie ma fabbrichiamo le armi, salviamo vite e al tempo stesso le uccidiamo, creiamo ricchezza e mentre lo facciamo condanniamo milioni di persone alla povertà.
Eccolo il destino della fragile moralità dell’uomo che ha rinunciato all’esercizio del limite in nome delle infinite possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico. Se si può fare, è sempre giusto farlo?
Possiamo noi, esseri fragili, creare quello che la fragilità non può contrastare? Galileo Galilei oggi riposa nella Basilica di Santa Croce a Firenze, accanto alla tomba di Machiavelli e Michelangelo. E proprio Michelangelo scrisse: “Desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro”.
Perché in fondo siamo tutti figli delle stelle e la vertigine eccitante che ci attrae è parente stretta della nostra fragilità.
Abbiamo paura del buio ma cerchiamo sempre una nuova luce.
È accaduto con il Covid.
“La guerra moderna alle paure umane, sia essa rivolta contro i disastri di origine naturale o artificiale, sembra avere come esito la redistribuzione sociale delle paure, anziché la loro riduzione quantitativa“.
Questa frase di Zygmunt Bauman sembra dare uno scopo alla cronaca degli ultimi anni, ormai caduta nell’oblio.
Perché anche la memoria è fragile.
Ecco alcune fotografie dimenticate.
I disabili negli Stati Uniti sono morti a un ritmo cinque volte superiore a quello del resto della popolazione. Questo succedeva perché agli ospedali non veniva concesso di fornire un respiratore ai malati cronici o a chi presentava minorazioni fisiche o mentali.
Oltre ai disabili non ricoverati, la cronaca ci ha mostrato immagini di fosse comuni scavate nella periferia di New York che seppellivano cadaveri che nessuno rivendicava, corpi di persone dimenticate.
Nel pianeta ferito dalla pandemia migliaia di donne e uomini venivano abbandonate senza cure, senza difese, senza nessuna forma di assistenza sanitaria.
E ancora, a Bergamo i corpi nelle bare spoglie e senza conforto venivano trasportati dai camion dell’esercito italiano per essere cremati lontano dall’affetto dei loro cari.
La fragilità dell’uomo non è solo etica e morale. Talvolta descrive il destino minore dell’individuo.
Da tempo il Papa ripete che il grande pericolo della società contemporanea è la “cultura dello scarto”.
“Esistono doveri inderogabili della solidarietà e della fraternità che troppo spesso dimentichiamo“, ci ricorda Francesco. Stiamo davvero parlando di persone scartate come succede con i rifiuti gettati nell’indifferenziata?
Non ci crediamo, non lo possiamo accettare, non lo vogliamo nemmeno vedere o ascoltare. Eppure se guardiamo agli anziani, ai disabili, a chi non ha più un lavoro e a come vengono marginalizzati, nascosti, rifiutati e abbandonati scopriamo una verità che non può più essere taciuta. Abbiamo un presunto concetto di superiorità che ci fa nascondere sotto il tappeto tutta la fastidiosa polvere dell’emarginazione e tutto quello che riteniamo “vuoto a perdere”. Il Papa non ha paura di usare le parole della nostra vergogna e descrive esempi di “vite scartate” e “vite indegne” perché non rispondono al criterio di utilità: “Una società merita la qualifica di “civile” se sviluppa gli anticorpi contro la cultura dello scarto; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza”.
La nostra vita assume così un significato diverso.
Dobbiamo solo calcolare il tempo che ci è concesso dalla nostra fragilità prima di diventare inutili, marginali, rifiuti. Il rapporto tra utilità e destino è il grande dilemma del nostro tempo.
La prima volta che ho prestato attenzione alla definizione di “cultura dello scarto” stavo leggendo un passaggio della Laudato sì: “È ormai noto che inquinamento, cambiamenti climatici, desertificazione, migrazioni ambientali, consumo insostenibile delle risorse del pianeta, acidificazione degli oceani, riduzione della biodiversità sono aspetti inseparabili dall’iniquità sociale: della crescente concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di pochissimi e delle cosiddette società del benessere, delle folli spese militari, della cultura dello scarto….”.
L’Economia Circolare, nella sua visione olistica, l’unica davvero possibile, ci insegna che tutto può essere recuperato, persone, territori, tradizioni, perché tutto deve essere rigenerato e riutilizzato. Non esistono rifiuti nella materia. Esistono semmai destini da ricostruire e un equilibrio da mantenere perché la disuguaglianza e l’abbandono sono solo disordine che genera crisi, conflitto, rabbia.
Credo di aver deciso di occuparmi di Economia Circolare proprio per questo. Ma la notizia è poco interessante.
Viene alla mente un vecchio saggio del già citato Bauman, socialista per definizione e marxista per vocazione, non a caso titolato Vite di scarto: “La produzione di ‘rifiuti umani’ o, meglio di ‘esseri umani scartati’, ovvero in esubero, eccedenti, cioè la popolazione composta da coloro cui non si poteva, o non si voleva, dare il riconoscimento o il permesso di restare – è un risultato inevitabile della modernizzazione”.
E inevitabile, a mio avviso, è sinonimo di fragile.
Il Manifesto di Assisi, scritto dai Padri Francescani e Fondazione Symbola, rovescia il concetto di inevitabilità a favore della ricerca di un’economia “a misura d’uomo”.
Intanto in molti hanno collegato il Coronavirus alla sostenibilità ambientale. È come se il Pianeta avesse trovato uno strumento per difendersi dall’ipocrita lentezza delle nostre agende pubbliche che fanno finta di non capire l’urgenza della crisi climatica e della mancanza di risorse. “È il nostro disprezzo per la natura e la nostra mancanza di rispetto per gli animali con cui dovremmo condividere il pianeta che ha causato questa pandemia, qualcosa che era stata prevista molto tempo fa”. Così Jane Goodall, primatologa britannica di fama mondiale, ha spiegato l’origine del disastro.
Insomma, se vogliamo mettere la nostra fragilità al servizio del progresso dobbiamo cambiare paradigma e per farlo servono visione, coraggio, voglia di futuro.
Già, ce lo ricordiamo il futuro?
Il nostro essere contemporanei ci obbliga a guidare la trasformazione in atto. Una enorme responsabilità e uno strano destino per la nostra umanità che come abbiamo visto è fragile per definizione.
In teoria sapremmo anche farlo. Sappiamo che il modello che ci ha accompagnato sino ad oggi è fallito. Dobbiamo rigenerare la nostra storia. Il passaggio dall’economia lineare all’economia circolare definisce il cambio radicale di un paradigma destinato a riscrivere il significato di parole come sostenibilità, crescita, sviluppo, uguaglianza, ricchezza e povertà.
Dobbiamo insomma costruire il futuro a pensare a cosa succederà dopo di noi. Ma noi al futuro non ci eravamo più abituati. Non solo noi. Anche la politica, l’economia, il nostro essere comunità. Perché costruire il futuro obbliga a esercizi che hanno bisogno di competenza e immaginazione. E noi spesso il saper fare e la creatività li abbiamo tolti dalla logica dello sviluppo e del progresso in nome di un presentismo sterile e fine a se stesso. La nostra classe dirigente è figlia più o meno consapevole del concetto di “fine della storia” del politologo Francis Fukuyama: l’evoluzione è compiuta lasciando aperta la strada verso la deresponsabilizzazione che chiamiamo “mancanza di visione”. Insomma, una sorta di tana libera tutti dall’obbligo di pensare razionalmente alla costruzione del futuro.
Che errore!
Il re-think attraverso la logica circolare dell’economia e dell’organizzazione delle relazioni all’interno delle comunità, insieme all’abbandono della cultura dello scarto in favore di una definizione chiara di “utilità” verso tutto ciò che viene nascosto e messo da parte, rappresentano l’ecosistema da cui ripartire.
L’unico realmente possibile.
Dirlo è facile, farlo è un esercizio di volontà pubblica.
Ci aiuta la storia recente.
Il 2015 è stato l’anno che ha parzialmente invertito la tendenza del pensiero globale sulle tematiche ambientali. Nello stesso anno esce la Laudato si’ di Papa Francesco, le Nazioni Unite presentano i già citati Sustainable Development Goals, gli SDGs e Larry Fink, CEO del fondo Blackrock, scrive agli amministratori delegati delle imprese più importanti del mondo per dire che le questioni ambientali, sociali e di governance non rappresentano solo una questione etica, ma hanno e avranno sempre di più un chiaro impatto sui profitti. Investire in sostenibilità diventa quindi un fattore competitivo.
La più importante autorità religiosa, la più importante istituzione pubblica e il più importante fondo di investimento nello stesso anno dicono la stessa cosa, con le stesse parole e nelle stesse settimane.
Quattro anni dopo negli Stati Uniti 181 colossi dell’economia e della finanza (tra questi Jp Morgan, Amazon, Apple, Accenture, At&t) rendono pubblico un documento in cui dichiarano che il capitalismo per essere buono deve prima di tutto proteggere il pianeta.
Insomma, tra l’economia liberista di Milton Friedman che definiva la responsabilità sociale delle imprese esclusivamente attraverso i profitti e l’economia sociale di mercato teorizzata da John Maynard Keynes arriva una sorta di terza via che mette al centro del fare impresa il rispetto per il pianeta e le persone.
Segnali non deboli per una rivoluzione in corso.
The times they are a changin’, cantava Bob Dylan tanto tempo fa.
Negli ultimi anni centinaia di migliaia di ragazzi iniziano a sfilare in tutto il mondo dietro le treccine di Greta Thunberg che, invitata all’Onu, ha guardato in faccia le nostre responsabilità e con la sfrontatezza dei suoi sedici anni ha detto: “Come osate non fare nulla?”.
“La coscienza, nel caos del mondo, è una piccola luce, preziosa ma fragile” ha scritto quel meraviglioso farabutto di Louis-Ferdinand Céline.
E infatti qualcosa, anche se è sempre troppo poco, la stiamo facendo. Con la consapevolezza ormai matura che le imprese non sono altro rispetto al luogo dove operano e si sviluppano, e rispetto alle persone che ci lavorano. L’equità insieme alla circolarità rappresentano il nuovo traguardo da raggiungere. L’equità è il luogo della competizione. La circolarità ne rappresenta il coerente e unico modello di sviluppo possibile. Ritornano alla mente le parole di Adriano Olivetti: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”.
La fabbrica, ovvero il luogo della produzione, è la metafora della sostenibilità delle nostre relazioni.
Di cosa abbiamo bisogno oggi per tornare ad essere olivettiani?
La fragilità dell’uomo deve sconfiggere i suoi limiti. Ha bisogno della Resistenza. Solo così può diventare Forza.
È arrivato il tempo dei Partigiani della Sostenibilità. Scriveva Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani (…). L’indifferenza è il peso morto della storia”.
L’inquinamento è una metafora del consumismo e non del consumo, dello spreco e non dell’abbondanza, dell’abbandono e non solo dell’incuria. Noi siamo animali abituati alla produzione. È la nostra natura, è quello che ci differenzia dagli altri esseri viventi sulla terra. E la produzione deve sempre essere rivoluzionaria.
Per questo abbiamo bisogno di mettere da parte la nostra fragilità per diventare tutti noi, uomini e donne di buona volontà, dei militanti contro l’indifferenza. Lo dobbiamo fare per combattere l’ombra oscura della falsità e la muffa maleodorante dell’indifferenza. Lo dobbiamo fare per il futuro dei nostri figli. Lo dobbiamo fare perché anche se in fondo non sarà tutta colpa nostra, siamo noi quelli chiamati a trovare la soluzione. Il futuro esisterà solo se sapremo costruirlo. E mai come oggi parole così retoriche e fastidiose come quelle che ho appena scritto definiscono il destino. Sembra di giocare la partita a scacchi contro la morte del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman.
Viviamo un momento molto pericoloso. I dati sconfortanti sugli SDGs presentati dall’Onu, il negazionismo sulla crisi climatica, la fine annunciata e mai smentita delle materie prime e le devastazioni energetiche che impattano sul nostro stile di vita raccontano davvero il peso morto della storia, la nostra storia. Senti che sta arrivando lo scetticismo dei leoni da tastiera, delle parole dette a caso al bar, dell’ipocrisia tanto al chilo travestita da luogo comune. In fondo il petrolio c’è ancora, Rubbia dice che non è vero tutto quello che si dice e lui è un premio Nobel, e poi c’è il mercato e poco importa se oggi è proprio il mercato a dettare le regole della nuova compliance economica e finanziaria. Male che va, cresceremo di meno o al massimo decresceremo un po’. Ma poi tutto si aggiusta. E chi l’ha detto che è davvero colpa nostra, mica c’erano le macchine diesel durante le glaciazioni terrestri. Perché in fondo voi che parlate di ambiente e teorizzate la fine del mondo state solo lavorando sulla paura. State facendo con il clima quello che avete fatto con il Covid. E tu vagli a spiegare che dobbiamo diminuire le emissioni di CO2, che serve una nuova politica energetica, che occorre risparmiare materia e che dobbiamo imparare il blues del meglio con meno.
Tempo perso.
Aveva proprio ragione Gramsci, l’indifferenza è la vera malattia da sconfiggere se vogliamo vivere una nuova sostenibile leggerezza dell’essere. Anche Dante ci ricorda che i luoghi più caldi dell’Inferno sono riservati a coloro che in tempi di grandi crisi morali si mantengono neutrali, gli ignavi.
Perché se è vero che Milan Kundera è morto, è altrettanto vero che anche noi non stiamo poi così tanto bene.
Saremo sempre fragili perché siamo fatti così. Ma forse più resistenti. E la nostra sostenibile fragilità dell’essere alla fine ci salverà.