La cattiveria nei sonetti di Belli

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La cattiveria quotidiana: genitori e figli.

    Li fijji

    Disiderà li fijji, eh sora Ghita?
    Sí, ppe le bbelle ggioje che vve danno!
    Prima, portalli in corpo guasi un anno:
4  poi, partorilli a rrisico de vita:

    allattalli, smerdalli: a ’ggni malanno
    sentisse1 cascà in terra stramortita:
    e cquanno che ssò ggranni, oh allora è ita:
8  pijjeno sú er cappello, e sse ne vanno.
    
    Cqua nnun ze pò scappà da sti du’ bbivi:
    si ssò ffemmine, sgarreno oggni tanto:
11   si ssò mmaschi, te viengheno cattivi.

    ’Gniggiorno un crepacore, un guaio, un pianto!…
    E vvòi disiderà li fijji vivi?!
14  No, nnò, Ccommare: Paradiso Santo!

Roma, 3 febbraio 1833

1 Sentirsi.

La donna che parla si rivolge all’amica Ghita (Margherita) con una serie di affermazioni sconcertanti sulla spaventosa contraddizione che le donne vivono tra le fatiche che affrontano e le soddisfazioni che ricevono dalla cura dei figli, fino ad arrivare addirittura a non desiderare i figli vivi,  Paradiso Santo!:  che è una esclamazione proverbiale con cui quasi ci si augura che i figli, invece di restare al mondo a patire, se ne vadano innocenti in Paradiso, quando sono ancora bambini. 

Questo sonetto apparentemente si risolve in una condanna tanto violenta da sfiorare la dannazione per quello che sembra uno dei tratti fondamentali dell’essere umano: la maternità (o la paternità, che è identico). Ci si trova dunque di fronte all’esasperato cinismo di una pazza sacrilega (si legga l’impressionante verso 13) che rifiuta quanto di più nobile e miracoloso si possa fare? Certamente il più evidente obiettivo della satira è questo atteggiamento della donna; al tempo stesso però il sonetto va a contestare il luogo comune della maternità come unica ragione di vita in base a un ragionamento profondamente umano che nasce dal buon senso, dalla desolante constatazione del percorso della vita: soltanto quattro versi (3-6) risolvono con essenziale sinteticità l’opera di abnegazione delle madri durante l’infanzia dei figli; poi, dopo tanti sacrifici, il compenso è rimanere sole. Di fronte all’ingratitudine dei figli esplode la reazione della donna. E il sonetto pone una questione fondamentale: si tratta di una condanna per questo terribile augurio, o di una umana comprensione per il destino delle donne? 

La cattiveria come regola dei rapporti tra uomini.


    L’impiccato

    Pe vvia de quella miggnottaccia porca
    che sse fa sbatte1 dar Cacamme in Ghetto;
    e, vvàjjelo a cercà2 ccor moccoletto,
4  nun tiè più mmanco un pelo in ne la sorca;

    che ppare, Iddio ne guardi, si sse3 corca
    un cadavero drento ar cataletto;
    ecco cqui, ss’ha da vede4 un poveretto
8  finí li ggiorni sui sopr’una forca!

    Però bbeato lui che ffa sta morte!
    Perché, mettemo caso5 abbi peccati,
11 è ppell’anima sua propio una sorte.

    De millanta affogati quarchiduno
    se pò ssarvà: ma de scento impiccati
14 ammalappena se n’addanna uno.

Roma, 14 settembre 1830

1 Si fa godere. 2 Va’ a cercarglielo. 3 Se si. 4 Vedere. 5 Supponghiamo.

A causa di quella prostituta tanto svergognata da concedersi perfino al hachàm (Belli in nota al sonetto Pio Ottavo: «Autorità ebraica in Ghetto»; la parola è deformazione dall’ebraico chacham, il sapiente, da cui, secondo Morandi, deriverebbe “cachemme”, “millantatore”; scrive Crescenzo Del Monte: «A quei tempi qualunque fedele correligionario venisse in Terrasanta era senz’altro un Chachàm, Sapientissimo!, e tenuto quasi in odore di santità. Spesso non si trattava che di ipocriti scrocconi, che col pretesto di venire a raccogliere l’obolo per i fratelli e la Scuola di Gerusalemme, si trattenevano più o meno a lungo, ben nutriti e alloggiati e si partivano poi forniti di un gruzzolo discreto»), un poveretto deve finire i suoi giorni alla forca. Destino terribile… però, a ben pensarci, in fondo non gli è andata tanto male, giacché un condannato ha tutto il tempo per pentirsi e quindi finire in paradiso. 

Un sonetto sconcertante per potenza e “volgarità” di lingua e di situazioni. Un sonetto dove il nostro tema appare segnato da paradossi sostanziali. Intanto l’evento che qui Belli ricorda era davvero accaduto, come scrive nel suo diario il principe Sigismondo Chigi: «N. all’annuncio di dover morire giustiziato uccise due carcerieri, l’uno con una mattonata sul capo, l’altro con un colpo nel ventre di un cucchiaio di legno aguzzato nel manico e intriso d’aglio. “Il Signore nun je l’abbi ascritto a peccato!”, tanto più che di lì a poco doveva confessarsi, per lo che sarebbe stata una partita passatora». La «partita passatora» consiste dunque in questo poter “passare” felicemente all’al di là grazie alla cristiana generosità della Chiesa che consente al condannato la sorte (in un altro sonetto intorno al medesimo concetto un condannato dice proprio «furtuna») di ricevere tutti i Sacramenti e dunque di morire «allegri». E la conclusione paradossale ma coerente, bbeato lui che ffa sta morte!, segna una sintesi estrema di questa cattiveria/cattività così centrale nel disperato mondo dei sonetti. 

La cattiveria del Potere anche contro se stesso.

    Er Papa in ner Corpusdommine

    Portà un vecchio un par d’ora in priscissione
    pe Ppiazza Rusticuccia e er Colonnato,
    tritticanno llà in cima inarberato
4  sotto quer culiseo de pivialone:

    arrampicallo poi ccusí scarmato
    su ppe le scale, er portico e ’r loggione,
    pe cconzolà cco la bbinidizzione
8  tutt’er monno-cattolico affollato…

    Povero vecchio! e cchi jje pò ddà ttorto,
    si ddoppo ste du’ fronne de smazzata
11 se bbuttò ss’una sedia e arrestò mmorto?

    Però, ddicheno l’ommini cattivi
    ch’er morto diede a ppranzo una taffiata
14 da cojjonà li morti e ppiù li vivi.

6 gennaio 1846

1 Si fa godere. 2 Va’ a cercarglielo. 3 Se si. 4 Vedere. 5 Supponghiamo.

Il papa, Gregorio XVI, alla festa del Corpus Domini (quando avveniva la processione più solenne dell’anno, presenziata appunto dal papa; e si noti che il sonetto è stato scritto il 6 gennaio, cioè in una data lontanissima dalla festa) era stato costretto, povero vecchio, a fare delle cose davvero faticose per la sua età: un paio d’ore in processione per piazza Rusticucci e il Colonnato (piazza Rusticucci era la piazza antistante al colonnato di S. Pietro, allo sbocco di Borgo Vecchio e Borgo Nuovo: completamente distrutta con l’apertura di via della Conciliazione e ricostruita in una veste architettonica diversissima, oggi si chiama piazza Pio XII; durante la processione del Corpus Domini, scrive Morandi, «il Papa era portato sul talamo dalla Cappella Sistina giù per la Scala regia, e quindi per il Colonnato destro, piazza Rusticucci, Colonnato sinistro, scale e portico, dentro S. Pietro sino all’altare papale, di dove poi, calato dal talamo lui e il Venerabile, impartiva con questo la trina benedizione. Il loggione dunque non c’entra»), tentennando, inalberato là in cima, sotto quel colosseo del grande piviale (cioè: sotto quell’enorme piviale; in effetti il papa stava sopra il “talamo” portato a spalla da dodici palafrenieri vestiti di rosso ed era coperto di un manto ampio in una postura tale che sembrava inginocchiato mentre in realtà era seduto); poi farlo arrampicare sulla loggia delle benedizioni per consolare con la benedizione tutto il mondo cattolico; e poi ovviamente dopo questa po’ po’ di faticata si era buttato su una sedia e sembrava morto. Eh, ma poi proprio morto non era, perché dopo dicono che si fece una colossale mangiata.

La magnifica processione del Corpus Domini viene raccontata da un popolano pieno di premure e di attenzioni per quel povero vecchio del papa. Si affaccia nel sonetto un atteggiamento quasi comprensivo per Gregorio XVI (che sarebbe morto sei mesi dopo la scrittura del sonetto) costretto dalla perfidia delle istituzioni a recitare ruoli ormai impossibili… anche se poi, siamo alle solite, il potere trova sempre le soluzioni per sopravvivere. Quanto alla processione del Corpus Domini e alla immagine di ieratica compostezza a cui era costretto il papa, si legga la descrizione che di una processione simile (quella del 15 agosto) fa Stendhal in Roma, Napoli e Firenze, che ne ricostruisce la particolare atmosfera: «18 agosto [1817]. Ho goduto uno degli spettacoli più belli e commoventi che abbia incontrato in vita mia […]. Comodamente seduto in prima fila, ecco ciò che ho visto: su un selciato coperto di sabbia e sparso di foglie di alloro, sono sfilati anzitutto cinque o sei ordini di frati, bianchi, neri, bruni, pezzati, insomma di tutti i colori, i quali, con la mano armata di una grossa fiaccola, e l’orecchio obliqua mente fisso in terra, cantavano a squarciagola inni inintellegibili. Essi cercavano evidentemente di ingraziarsi l’attenzione della moltitudine con l’incedere umile, tradito continuamente dall’orgoglio degli sguardi. Veniva quindi il clero regolare delle sette grandi basiliche, diviso in sette corpi diversi da grandi baldacchini rossogialli tesi a metà, portati da uomini vestiti di bianco; e ciascuno di quei baldacchini, d’aspetto assolutamente orientale, era preceduto da uno strumento bizzarro, sovrastato da una campana, dalla quale traeva un unico rintocco di minuto in minuto. Alla fine sono arrivati gli alti funzionari della Chiesa e i cardinali, con la testa coperta dal caratteristico berretto a punta. Improvvisamente tutti piegarono il ginocchio, e, su una predella circondata dalle stoffe più sontuose, vedo apparire una figura pallida, inanimata, superba, avvolta essa stessa di panni fino sopra le spalle, e che mi sembrava formare un tutto unico con l’altare, la predella e il sole d’oro davanti al quale stava come in adorazione. “Non mi avevi detto che il papa era morto”, diceva accanto a me un bambino alla mamma. E niente può render meglio l’assenza totale di moto in quella strana apparizione. In quel momento intorno a me non c’erano che credenti, e io stesso appartenevo ad una religione così bella! L’atteggiamento del papa è tradizionale: ma, poiché sarebbe molto faticoso per un vecchio, spesso infermo, si dispongono drappeggi in modo che sua Santità sembri inginocchiato, mentre in realtà sta seduto su una poltrona».

La cattiveria dei cacciatori.

    Er cacciatore

    Fijjolo, me seccate inutirmente.
    D’un cacciatore io poco me ne fido.
    Nun me guardate fisso, ché nun rido.
4  Fijjo caro, io nun sposo scerta ggente.

    Come! sorprenne1 e condannà a lo spido2
    una povera passera innoscente,
    che a vvoi nun v’odia e nnun v’ha ffatto ggnente,
8  e sta pp’er fatto suo drent’ar zu’ nido!

    Io la penzo pe mmé cche un cacciatore
    che ggode tanto d’ammazzà un uscello,
11 nun pò èsse3 un cristiano de bbon core.

    Bella raggione! Ah, ddunque perché cquello
    è ppiccinino, nun zente er dolore
14 com’un omo a lo sfràggneje er cervello?

settembre 1835

1 Sorprendere. 2 Spiedo, in senso di schidione. 3 Non può essere, ecc. – Gio. Giorgio Zimmermann la pensa presso a poco come la nostra romanesca, avendo detto nel suo trattato sulla Solitudine che un uomo pel quale la caccia sia una passione farà tanto più male agli uomini quanto più avrà di potere.

La donna che parla respinge le profferte dei uno spasimante che è cacciatore, e che perciò esercita una violenza estrema e oscena su creature innocenti. Il trattato di cui parla Belli nella nota è appunto La solitudine. Morali influenze della solitudine sopra lo spirito ed il cuore di Johann Georg Zimmermann (1728-1795), uno dei testi di riferimento nella discussione sui benefici e i danni della solitudine che si svolge nella cultura europea a partire dalla metà del Settecento. Per Zimmermann il ritiro dalle cure e dagli obblighi della vita associata implica non il rifugio in una dimensione antisociale ed egoistica, ma un’astensione temporanea dalla socievolezza, con l’obiettivo di restituire all’uomo la piena sovranità su sé stesso. 

Mi piace dunque chiudere questo intervento sulla cattiveria, un tema, ripeto, sostanziale del mondo dei sonetti e della scrittura di Belli, con questa lucida, splendida sollecitazione a un tema che davvero solo Belli (non mi vengono in mente altri nomi della storia della cultura mondiale prima di lui) ha affrontato con tanta chiarezza e precisione: l’assurda inutile cattiveria – e stavolta è proprio il caso di dire! – del cacciatore (ovviamente di chi va a caccia non per necessità di sopravvivenza). Tutta la tenerezza, tutto l’umanissimo e francescano rivolgersi al mondo dei «piccinini» e delle «crature», tutta la solidarietà con gli umiliati e gli offesi, tutto lo sdegno contro i prepotenti, gli arroganti, gli stupidi vigliacchi, si concentrano in un sonetto che dovrebbe essere assunto a manifesto pacifista e al tempo stesso a chiave di lettura della moralità e della cultura di un poeta severo e solo, che opponeva all’idiozia del mondo soltanto la sua coscienza limpida. Questa popolana che respinge il pretendente perché «non si fida» di chi ammazza una povera passera innoscente diventa anche l’emblema di chi resiste alle prepotenze di quanti vogliono imporsi al mondo con la violenza e con le armi. La sintonia fra autore e personaggio e la centralità dello spunto è sottolineata dalla nota, in cui Belli, eccezionalmente, collega il sonetto a una sua lettura di evidente significato morale, filosofico, e politico. 

Le citazioni dei sonetti di Belli sono tratte da: Giuseppe Gioachino Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a c. di Marcello Teodonio, 2 v., Roma, Newton Compton, 1998.

 


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