25 Ott Fuori dalla buia caverna
CONOSCENZA E CONDIVISIONE
di Laura Ippoliti
Stante la nostra realtà di umani spersi nell’universo, sembrerebbe ragionevole pensare che il concetto di fragilità non sia una fra le tante condizioni che ci possono caratterizzare in certi momenti della vita, bensì la condizione oggettiva in cui siamo immersi e a cui non possiamo sfuggire.
Eppure, da millenni, qualcosa ci permette di alzarci ogni mattina e vivere come se fossimo i robustissimi padroni di quell’universo e del nostro destino.
Dov’è il trucco?
Certo, per tanti secoli l’uomo non sapeva di girare appeso a una pallina infinitesimale dentro un enigma inquietante. Ma c’erano altre fragilità di cui preoccuparsi, come chiedersi se il sole sarebbe sorto il giorno dopo e se i fulmini in una notte buia preludevano all’arrivo di qualche dio incazzato.
Di fronte a tanto orrore, il piccolo essere appena divenuto umano aveva due alternative: rintanarsi nella grotta più profonda che trovava e diventare uno dei tanti vicoli ciechi dell’evoluzione, o prendere il toro per le corna e andare allo sbaraglio cercando di capire.
Ha scelto la seconda, ovviamente, sennò non sarei qui a scrivere.
Cos’è che lo ha spinto fuori dalla tana nonostante la sua eclatante inadeguatezza? Incoscienza? Coraggio? Tutti e due? O forse era qualcos’altro, qualcosa di apparentemente futile, infantile, quasi giocoso, tutto sommato irrilevante rispetto alle ben più urgenti necessità della sopravvivenza?
La curiosità.
L’insopprimibile, irresistibile, irrinunciabile brama di vedere cosa c’era un passo più in là. Lo si è chiamato progresso, a un certo punto. E cos’è il progresso se non la voglia di costruire scale sempre più solide per arrivare a vedere oltre muri sempre più alti?
Era quello il trucco. E lo è ancora, per nostra fortuna.
Finché l’umanità avrà voglia di scoprire cosa c’è dietro quell’altra curva del sentiero, oltre le colonne d’Ercole, verso l’infinito e oltre, nessun mistero, nemmeno il più oscuro e spaventoso, riuscirà a scoraggiarci.
Nonostante tutta la nostra fragilità.
Ma la sete di conoscenza è come una tavola da surf, che ti fa volare a pelo d’acqua a patto di non fermarsi. Quindi per arrivare fin qui serviva un altro piccolo ingrediente, innato pure quello a quanto pare, e cioè il desiderio profondo di condividere, di trasmettere agli altri la propria esperienza, i propri progressi. E così gli anziani dalle gambe ormai fragili, correvano sulle spalle dei giovani e intanto gli insegnavano come evitare le buche e come vincere la paura dell’ignoto. E quando la scintilla della curiosità era stata alimentata a dovere, i giovani deponevano i padri con tutti gli onori e proseguivano da soli. Un altro pezzo di cammino a beneficio di tutti.
Era il bellissimo patto fra le generazioni e, in qualunque lingua si volesse definirlo, ebbe un nome: Scuola.
E fino a un certo punto la Scuola è stato un dono cui tendere, imparare era una gioia purissima e insegnare era un privilegio. La matematica non era uno spauracchio, ma una magia che permetteva di indovinare che là, in quel punto preciso del cielo, c’era un pianeta che solo secoli dopo avremmo visto con potenti telescopi non ancora inventati. Era la facoltà di prevedere eclissi senza attribuirle a divinità capricciose e di capire perché un suono era rumore e un altro era musica. La poesia tramandava fantastiche storie che ci univano in un’identità comune, la filosofia scopriva il potere creativo del pensiero, l’arte lo vestiva di bellezza.
E l’umanità si sentiva meno fragile.
Tutto bene quindi? E invece no, perché c’era in gioco una terza spinta, anche questa insopprimibile, ma stavolta devastante: in un universo in cui la prima, chiarissima regola per sopravvivere e prosperare è la collaborazione, noi invece covavamo il germe della competizione, l’avidità corrodeva le nostre fondamenta. Laddove la curiosità tendeva alla condivisione, essa cercava la sopraffazione, perché se voglio tutto per me, significa che tutti gli altri non avranno niente. Come le cellule di un cancro che, rifiutando di crescere in armonia e cercando di sopravvivere a spese degli altri, finiscono per uccidere lo stesso organismo che le ospita.
Così l’incanto si è rotto, la scuola è diventata un pericolo, il potere ha iniziato a contrastare la conoscenza perché il suo migliore alleato è sempre stato l’ignoranza, che divide, genera paure e rende facile governare la fragilità del gregge. Il sapere non deve più essere diffuso ma restare il bene di un’élite, strumento di sopraffazione che serve solo ad alimentare il potere stesso. Scuole private per pochi e scuole pubbliche che cadono a pezzi per tutti gli altri. La ricerca di competenze, cioè l’utilizzo dell’individuo in un sistema produttivo, al posto della formazione di persone in grado di collaborare all’avanzamento di tutti.
E tutti ci perdono, tranne pochi, pochissimi.
Quando l’avidità vince sulla spinta a scoprire e sulla voglia di condividere, tutta l’umanità torna in quella buia caverna, a tremare di paura.
Ecco la nostra vera, grande, pericolosissima fragilità.
L’unica che mi spaventa davvero.