Fragilità di un presente in crisi

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Intervista a Massimo Cacciari

a cura di Ginevra Amadio

Fragilità è un termine sfaccettato, evocativo e poco rigoroso, soggetto all’usura del linguaggio, al suo progressivo impoverimento. Tuttavia – ed è ciò che lo distingue dai suoi sinonimi – esso conserva un’innegabile capacità di focalizzazione perché risulta in grado di adattarsi all’esperienza di certi momenti storici; riesce a riassumerla, a comunicarla, spesso sostituendo, nella lingua, moduli insufficienti o inadatti. 

È con tale consapevolezza che si ricorre al termine, e alle sue sfumature di significato, per fotografare una situazione di disagio collettivo, il senso di impotenza dinnanzi alle angosce più o meno (in)consce causate da un presente in crisi sistemica, sospeso tra deterioramento climatico, una congiuntura economica disastrosa, sfaldamenti democratici e l’orrore della guerra. 

Massimo Cacciari, professore emerito di Filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, una delle menti più lucide del nostro tempo, spiega come l’esperienza della fragilità – comune al destino dell’uomo – tracci un perimetro riconoscibile di paura svelando, al contempo, l’insufficienza delle risposte, un ripiegamento sulle proprie angosce che è anche annichilimento dell’agire collettivo. Ma, la storia insegna, dalle fratture ha spesso origine la ricomposizione.

Professor Cacciari, viviamo in un’epoca di grandi stravolgimenti, in una condizione di policrisi globale. L’uomo, in questo contesto, si scopre ancora una volta fragile, mostrando le crepe di quello che, almeno per il mondo occidentale, sembrava un benessere diffuso. Occorre pertanto ragionare sulle fragilità del presente. 

Sarebbe impossibile risolvere in poche battute una questione così complessa. È tuttavia innegabile che le ramificazioni del problema sono infinite, intrecciate, difficili da sciogliere. C’è una crisi economica, una crisi internazionale di equilibri politici, dissesti tra continenti dal punto di vista demografico, sociale, economico, un’evidente frattura nel sistema democratico dei Paesi occidentali. L’uomo è sempre stato fragile, il solo fatto di essere mortale lo rende tale. Questa vulnerabilità lo espone alla malattia, all’angoscia, a un costante, latente, stato di allarme. Lo attaccano i virus, subisce l’attacco dei suoi simili. In un’epoca di crisi vengono meno le norme, le regole, le istituzioni in grado di ‘governare’ le nostre fragilità che, inevitabilmente, diventano fonti di insicurezza traumatica. Occorre però inquadrare questo discorso in un’ottica di relatività, perché le grandi catastrofi, i grandi stravolgimenti, vedono la contrapposizione tra fragilità e forza. Certo, la maggior parte degli individui fa i conti con trasformazioni che assumono forme sempre meno governabili. Ma ci sono persone che traggono vantaggio da situazioni destabilizzanti, sanno sfruttarle a loro vantaggio. Ogni crisi comporta una disparità, uno squilibrio di potere. 

In questa prospettiva, oggi più che mai, può incombere – forse – la minaccia della rassegnazione?

Anche in questo caso occorre relativizzare. Qualcuno, dinnanzi a situazioni di insicurezza, reagisce rassegnandosi, ma esiste anche chi dà vita a forme diverse di protesta. Certo, siamo in una situazione in cui risulta sempre più difficile reagire elaborando un pensiero critico o progetti alternativi. Anni fa si riteneva di avere i mezzi, gli strumenti per elaborare le grandi crisi, perché si era in grado di contare su orientamenti più o meno fasulli capaci di offrire una qualche consolazione. Ora è sempre più raro. La situazione contemporanea, nella sua globalità, lo rende pressoché impossibile. Si elaborano, è vero, delle strategie ben strutturate ma circoscritte a specifici ambiti, siano economici, ecologici, sociali. Non direi, tuttavia, che regna la rassegnazione. Ci si sforza a ragionare, a discutere, a lottare. Certo, in una situazione sempre più fragile perché, soprattutto nei Paesi occidentali, mancano ormai le forze politiche organizzate in grado di dare consistenza a tali pensieri critici che non riescono a tradursi in prassi. Quelle che avevano contestato l’attuale modello di sviluppo si sono irrimediabilmente sfasciate, annullate. Per questo direi che esiste il pensiero critico ma il passaggio alla pratica è estremamente complicato.

Questo perché è mutato il contesto?

È cambiato, ma non è il caso di avere troppa nostalgia. Se siamo arrivati a questo punto è perché sono stati commessi molti errori, non si è stati in grado di offrire un’alternativa reale, valida. Certo, allora sembrava esistessero dei soggetti organizzati capaci di governare le situazioni di crisi. Oggi è tutto diverso, più contenuto. In certe aree del pianeta si ha la capacità, la forza di reagire almeno tramite il pensiero. Ma la prassi, ripeto, è un’altra cosa.

Tra i temi caldi del presente ci sono la crisi ambientale, il rapporto con il territorio, la questione migranti.

Sono questioni di portata globale, per affrontare le quali non possediamo strumenti idonei. Come i fenomeni migratori, per essere governati adeguatamente, avrebbero bisogno di un governo globale, il problema dell’ambiente necessita di uno sguardo ampio, di una visione d’insieme. Non si potrà mai affrontare la crisi climatica se lo stato delle cose si regge unicamente sugli accordi tra Stati sovrani. L’assenza di un potere terzo in grado di imporre certe decisioni è esiziale. Siamo di fronte a una colossale contraddizione.

Ha quindi senso tornare a parlare di locale in un’epoca di nuova globalità?

Certamente. All’interno di un discorso globale è bene che si situi il riconoscimento delle specificità locali. Poniamo l’esempio dell’ambiente; un ‘governo del mondo’ – appunto, globale – dovrebbe tener conto che tre quarti del pianeta ha bisogno di sviluppo e necessita di energia. Ecco,  questo tipo di istituzione sarebbe l’unica in grado di assicurare una distribuzione più o meno equa delle risorse. Occorre sempre tener conto delle esigenze del locale, che vanno tuttavia riconosciute in un’ottica di strategia globale, pena la loro costante frustrazione. Se le cose non cambieranno, le parti più fragili del pianeta continueranno a soffrire. 

Mi consenta ora una domanda che investe il piano culturale. In un mondo dominato dalla tecnica, in cui viene propugnato il sapere scientifico in nome di una presunta ‘utilità’, la cultura umanistica ha ancora valore?

Non c’è alcuna separazione di piani. L’uomo è homo technicus e umanesimo vuol dire studio dell’uomo. Si tratta di un dato riconosciuto sin dall’antichità, quando i sapienti si occupavo di politica, di tecnica, di pittura. Un homo technicus può essere benissimo un individuo che si interessa di Dante, di Shakespeare. Il problema sorge quando un progresso tecnico, economico, finanziario non riesce a essere governato in modo tale da rendere meno drammatiche le contraddizioni, gli squilibri del nuovo corso. La politica deve dotarsi di una strategia capace di contrastare le diseguaglianze che continuamente, e in termini diversi, si producono. Altrimenti, questi disagi esplodono. Da qui le crisi economiche, ambientali, i drammi della guerra. Le contraddizioni non curate finiscono inevitabilmente per deflagrare. Dopodiché si ricomincia, come è sempre accaduto: con un nuovo ordine, con nuovi governi, con nuove culture. O si è grado di affrontare le crisi mediante riforme radicali, o i traumi certamente affioreranno.

Dunque occorre trasformare la fragilità in forza d’azione.

È sempre stato così. La fragilità cresce su sé stessa fino al punto di far crollare il sistema. Questo non equivale alla fine della Storia, ma implica una catastrofe, un cambiamento traumatico di stato. Poi da qui, come detto, tutto ricomincia. Si formano nuove classi dirigenti, nuovi ordini, nuovi diritti. Così è stato dopo Azio, all’inizio dell’Impero Romano, così è stato con Carlo Magno, con la Rivoluzione francese, con la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Può darsi che ora si stia andando verso una catastrofe di questo tipo; finanziario-economica, magari ambientale, oppure – ed è ciò che più si teme – verso una grande guerra che comprende tutte le calamità possibili. Dopodiché, anche questa volta, avrà inizio un nuovo ciclo.


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