09 Giu Benedetto XVI
di Francesco Lepore
Non è cosa certamente agevole tracciare il bilancio della vita di un uomo quale Joseph Ratzinger, che ha attraversato due secoli come sacerdote, teologo, accademico, arcivescovo di Monaco e Frisinga (1977-1981), prefetto dell’ex Sant’Uffizio (1981-2005), 264° successore di Pietro (19 aprile 2005 – 28 febbraio 2013) e, a seguito delle epocali dimissioni annunciate in latino con la Declaratio dell’11 febbraio 20131, papa emerito. D’altra parte, come soleva ripetere con assennatezza l’illustre scrittore de “La Civiltà Cattolica” Giandomenico Mucci, scomparso nel 2020, si dovrebbero attendere anni per poter compiutamente scrivere di pontefici appena defunti o comunque recenti, la cui corretta valutazione dipende in larga parte dalla compulsazione di carte e documenti a lungo inaccessibili per la rigorosa legislazione archivistica.
Quella che dunque qui si propone è una pista di lettura, ovviamente sintetica, del percorso esistenziale di Benedetto XVI, morto novantacinquenne nell’ex monastero vaticano Mater Ecclesiae, alle 9:34 del 31 dicembre, tra incondizionati osanna, elevati soprattutto da conservatori d’ogni latitudine, e spietati crucifige, gridati per lo più in rete o sui social dai soliti orecchianti. Sotto quest’ultimo rispetto sono state tali l’acredine e la volgarità, che hanno accompagnato la rimessa in circolo di vecchie dicerie sul suo conto, da indurre uno storico mai tenero con lui come Alberto Melloni a parlare di «infamie» propalate da «un raduno di trogloditi puri e di cretini acculturati che si sentono anticlericali solo perché sanno vomitare». A fare da sfondo le complottistiche narrazioni di un Benedetto XVI, spirato in uno stato d’inumano isolamento con il suo segretario particolare, l’arcivescovo Georg Gänswein, e le quattro fidate Memores Domini. Per non parlare poi delle mai sopite farneticazioni sullo stesso, non già emerito ma unico vero Papa in ragione di una rinuncia al ministerium ma non al munus petrino, di differimento della stessa meramente annunciato e di marchiani errori di latino, da lui inseriti nella citata Declaratio per intenzionalmente invalidare le dimissioni2.
Ma come più volte precisato dal cardinale teologo Gerhard Ludwig Müller, amico di vecchia data di Benedetto XVI, suo successore – dopo il settennato d’un altro ratzingeriano quale William Joseph Levada – alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede, autorevole capofila della minoranza cardinalizia critica verso Bergoglio, che l’ha sollevato, forse troppo corrivamente, dall’incarico di prefetto dell’allora Congregazione per la Dottrina della Fede all’età di 70 anni, «c’è legittimamente un solo Papa e si chiama Francesco. Chiunque sia stato papa, vivo o morto, non lo è più, anche se ha diritto a tutta la gratitudine e alla venerazione personale». Affermazione di grande peso – da leggere fra l’altro nell’ambito dell’ampia e rigorosa riflessione sull’infondata tesi della doppia leadership nella Chiesa cattolica in quanto quelli trascorsi dall’elezione di Bergoglio alla morte del predecessore emerito sono stati «nove anni di convivenza di un solo papa e del suo predecessore come papa emerito» –, che, se rivela da una parte la piena fedeltà e il «genuino amore» del porporato a Francesco come «padre della cristianità», ne rivela dall’altra l’estrema vulnerabilità a lasciarsi facilmente irretire da adulanti alfieri della “sana dottrina”. Ma anche a comprendere – lo rilevava già la teologa e giornalista Dawn Eden Goldstein in un tweet del 25 ottobre 2019 – fino a che punto movimenti teocon come Tradition, Family, Property (TFP) strumentalizzino lui e i vari Brandmüller, Burke, Chaput, Sarah «contro la cosiddetta Chiesa bergogliana».