Cattiveria e Imprese

Condividi:

di Fabrizio Fasani

/cat·ti·vè·ria/
sostantivo femminile

  1. Innata disposizione a far del male, a recar danno al prossimo nelle sue cose o nelle sue aspirazioni.
           Con senso attenuato, riferito a ragazzi, carattere indocile e ribelle, dispettoso e prepotente.
  2. Atto provocato da malignità o malanimo: una c. simile da lui non me l’aspettavo; anche, bizza, dispetto.

Fin qui la definizione, che coincide con il senso comune, con ciò che percepiamo sintonico con il nostro profondo essere.

Ed è subito evidente come la cattiveria sia un sostantivo riferito a persone e non a oggetti; non esiste allora la cattiveria dell’impresa, il suo cinismo, la propensione al bene soggettivo a scapito del bene comune; la cattiveria – qualora ci sia – è caratteristica non dell’impresa soggetto giuridico, ma degli uomini che la compongono, degli stakeholders, di chi esercita – in qualunque modo – il potere di guida o di indirizzo (tralasciando le piccole cattiverie proprie di chi lavora nell’impresa e ritengo poco significative per questo articolo).

Da cosa nasce allora questa personalizzazione di un sentimento umano nell’implementazione di una entità impersonale, cosa salta alla mente quando si parla di “cattiveria” di una impresa?

Probabilmente da un fil rouge che collega nella storia la costante percezione di distanza tra il bene del singolo e quello dell’organizzazione produttiva.

Credo che sia utile ricordare che il concetto di impresa emerge in Inghilterra circa 250 anni fa, propagandosi rapidamente ad altri paesi e provocando, di fatto, la nascita del capitalismo.

Come molti fenomeni dirompenti, anche la nascita dell’industria crea profonde divisioni sociali, a causa di alcune peculiarità ben precise, quali la separazione tra la proprietà dei mezzi di produzione e i produttori diretti, l’accentramento della mano d’opera in un unico luogo di lavoro, l’impiego intensivo di macchine azionate da motori e la produzione di massa. 

Tutto questo si riverbera in un sistema produttivo in cui inizialmente i lavoratori sono quasi per nulla protetti e garantiti nei loro diritti; è solo alla fine del XIX secolo che il sistema sociale evolve verso una maggiore inclusività, ampliando il suffragio universale e vedendo la nascita dei partiti socialisti e dei sindacati. 

Nel 1867 infatti, con la pubblicazione del “Capitale”, si è creata una alternativa sistemica al pensiero liberista prevalente sino a quel momento; Marx, in estrema sintesi, sostiene che le condizioni e le caratteristiche della vita materiale incidono inevitabilmente sugli altri aspetti della vita sociale ed evidenzia le contraddizioni insite nel capitalismo puro, teorizzando che le caratteristiche delle diverse società storicamente esistite dipendano essenzialmente dai mezzi di produzione e dalle tecniche produttive utilizzate, nonché dai rapporti sociali di produzione. 

Marx fa emergere quindi come si determini, a causa della concentrazione dei fattori di produzione nelle mani di pochi, lo sfruttamento dei lavoratori.

Qui, aperta da un pensiero teorico raffinato, nasce una profondissima crepa che pone dai due lati impresa e lavoratori, non parti solidali per il benessere comune bensì antagonisti tra di loro in quando parti di un equilibrio asimmetrico, tra uomini detentori del capitale e uomini merce. L’Illuminismo e le teorie egualitaristiche, le forze del progresso e della parità dei diritti tra tutti gli uomini vengono sconfitte da una implementazione distonica rispetto agli ideali della Rivoluzione Francese e del nuovo mondo che da lì nasce.

Da un lato si comincia a parlare di “democrazia moderna”, dall’altro i diritti di quegli stessi uomini, quando sono lavoratori, sono ancora a un livello estremamente limitato.

È questo, secondo me, il momento in cui comincia ad essere utilizzato il sostantivo “cattiveria” per identificare l’approccio predatorio e rapace dei diritti dei lavoratori. Definizione scorretta grammaticalmente, ma comprensibile nella sua accezione simbolica.

Nel tempo l’impresa evolve, cambia pelle; all’inizio del Novecento, la progressiva redistribuzione della ricchezza inizia a interessare un numero sempre maggiore di persone che aspirano non solo a elevare il proprio livello sociale ma anche a possedere beni di consumo e beni durevoli in grado di assicurare maggiori comodità.

Aumentando il numero dei consumatori, le modalità di lavoro e le tecniche di produzione devono essere modificate per accompagnare questo fenomeno. 

Gli economisti e gli imprenditori dell’epoca – tra questi Frederick Taylor – ipotizzano teorie sul management che abilitano queste richieste; vince chi per primo adotta i principi delle economie di scala, della parcellizzazione del lavoro, della produzione di serie e della standardizzazione. 

Il processo di produzione industriale viene ridotto a singole semplici operazioni, cronometrate, immutabili dall’esperienza del lavoratore, e questo viene istruito solo sullo sviluppo delle sue capacità manuali. Nasce il concetto di catena di montaggio, meccanica ma anche umana. 

E qui emerge una diversa “cattiveria”, che si somma alla precedente; un progressivo svuotamento delle funzioni intellettive dalla massa operaia che diventa sempre più strumento meccanico delegando il “pensiero” – vera caratteristica dell’essere umano – a pochi individui che dirigono tutti i lavoratori. 

L’implementazione di questo passaggio è l’azienda fordista; chiusa, quasi un corpo estraneo, che funziona bene quando sfrutta al massimo impianti rigidi, di grandi dimensioni, in cui non esiste alcuna sensibilità circa i danni che la fabbrica produce sull’ambiente, né sulla sicurezza dei lavoratori, con consumi energetici enormi e scarti industriali che impattano profondamente sul territorio.È un’altra declinazione, incrementale delle precedenti, della “cattiveria”.

Continua a leggere


Condividi: