La fragilità degli ultimi, dall’Africa all’Italia

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Quando ho saputo che il tema del nuovo numero di Malacoda sarebbe stato “la fragilità”, sono rimasta piacevolmente sorpresa: ho avuto la riconferma di ‘trovarmi’ al posto giusto, parte di un collettivo di professionisti, ma ancor prima di uomini e donne, che guardano al mondo con grande attenzione, sensibilità e rispetto. Una famiglia di pensiero, ma non solo, che pone l’Umano al centro, senza alcuna paura di sviscerare le sue mancanze, i suoi limiti, i suoi problemi, che possono anche diventare punti di forza.

Mi è subito venuto in mente il detto che allude alla parabola evangelica: “Beati gli ultimi, perché saranno i primi a entrare nel Regno dei Cieli”, anche se il mio primo pensiero è stato rivolto agli ultimi, che in quanto a fragilità, oserei dire, se ne intendono. Un pensiero ovvio per me che, sin da ragazzina, consultavo con interesse e preoccupazione i report annuali di Amnesty International e di altre organizzazioni che registrano violazioni dei diritti umani e dei diritti tout court ai quattro angoli del pianeta. Un’inclinazione che 20 anni dopo mi ha portato nel mio lavoro quotidiano da giornalista a “dare voce a chi non ha voce” – per riprendere lo slogan dell’agenzia stampa Misna delle congregazioni missionarie, fondata nel 1998 da padre Giulio Albanese, chiusa definitivamente nel 2016 – mettendomi in contatto ogni giorno con capitali e cittadine più remote delle periferie del mondo, in particolare dell’Africa, per documentare la sorte, quasi sempre sofferente e sofferta, degli ultimi. A fare notizia erano quasi sempre le bad news e troppo raramente quelle buone!

Le fragilità degli ultimi nei Sud del Mondo

E’ così che, dal 2001 al 2015, ogni giorno, con i colleghi abbiamo “mangiato pane e Africa”, come dicevamo, senza tralasciare ovviamente gli altri Sud del mondo, in Asia, Medio Oriente e America latina. Le nostre fonti sul terreno erano dirette e autorevoli: missionari da anni al servizio degli ultimi, attivisti, difensori dei diritti, esponenti di spicco della società civile locale, Ong, personale medico sanitario del calibro di Denis Mukwege. Il ginecologo sopranominato “l’uomo che ripara le donne”, che nel Panzi Hospital, da lui fondato nel 1998 in Kivu, nell’Est della Repubblica democratica del Congo, assiste le vittime di stupro come arma da guerra, diventato Nobel della Pace nel 2018. 

Donne e ragazze

Sicuramente a quelle latitudini ragazze e donne sono tra le persone maggiormente esposte a privazioni, violenze e violazioni dei diritti: vere icone di tutte le fragilità degli ultimi nel Sud del mondo. Succede in Afghanistan, tornato due anni fa sotto il cupo dominio dei talebani; in Iran, diventato il simbolo delle violazioni dei diritti delle donne, e ancora in India, dove gli stupri sono all’ordine del giorno, ma l’elenco è ahimè davvero lungo, troppo. 

Un altro dramma che ha coinvolto molte donne, con i propri figli portati sul posto di lavoro, e che mi colpì particolarmente fu il crollo del Rana Plaza a Savar, un sub-distretto nella Grande Area di Dacca, capitale del Bangladesh, sopraggiunto il 24 aprile 2013, con un bilancio di 1.134 morti. La struttura ospitava una serie di fabbriche di abbigliamento che impiegavano circa 5 mila persone, diversi negozi e una banca. Le fabbriche realizzavano abbigliamento per marchi molto noti del prêt à porter, tra cui Benetton, Zara, Bershka, Pull and Bear, Mango. I quattro piani superiori erano stati costruiti senza permesso e gli ispettori, che avevano scoperto crepe nell’edificio il giorno prima del crollo, ne avevano chiesto l’evacuazione e la chiusura. 

I bambini e gli anziani

Ultimi altrettanto fragili nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo ed emergenti sono i minori: piccoli lavoratori forzati che per paghe misere, sempre nella Rd. Congo, si calano sottoterra a caccia di un materiale molto ricercato: il coltan, mettendo spesso a rischio la propria vita. Noto anche come nuovo oro blu, è un minerale nero metallico composto da columbite e tantalite, fondamentale per realizzare condensatori di piccole dimensioni ma molto efficienti, essenziali in dispositivi portatili quali telefoni cellulari e computer, nonché nell’elettronica per l’automobile. 

In Costa d’Avorio invece lo sfruttamento del lavoro minorile riguarda le piantagioni di cacao, dove i bambini-schiavi della pregiata fava bruna sono esposti al glifosato, agli insetti e ai morsi di serpente; hanno problemi alla schiena e il loro corpo risente delle innumerevoli ore passate ricurvi sulla terra. La rete del traffico coinvolge ragazzi non solo dal Burkina Faso, ma anche dal Mali, dal Niger, dalla Nigeria, dal Togo e dal Benin. Secondo stime concordanti, rilanciate dalla rivista Popoli e Missione, il numero dei minori impiegati nelle piantagioni di cacao sfiora il milione. 

Particolarmente esposti alle fragilità di natura socio-economica, nonché in termini di diritti e di incolumità psico-fisica, sono anche gli anziani, non di rado privi di cure mediche e assistenza, impossibilitati a scappare in caso di attacchi da parte di milizie armate in diversi Paesi africani, ad esempio, dal Sudan al Mali passando per il Centrafrica. 

La fragilità degli ultimi nel continente africano – quello di cui ho scritto maggiormente – si manifesta sin dalla nascita, dove per assenza, insufficienza e arretratezza delle infrastrutture sanitarie, può essere molto difficile  raggiungere un ospedale per dei controlli e per partorire. Per una donna dell’Africa subsahariana il rischio di morire durante la gravidanza o il parto nel corso della propria vita è pari a 1 su 37, mentre in Europa è di 1 su 6.500. Secondo fonti Oms (2021), quotidianamente sul continente 810 donne muoiono per complicazioni legate al parto e alla gravidanza. Inoltre metà dei decessi tra i neonati africani si registra in soli cinque Paesi: Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Tanzania e Uganda, ma nella sola Nigeria muoiono più di 255 mila neonati l’anno. Sempre in quest’area del globo, secondo Unicef, oltre 13.600 bambini sotto in cinque anni muoiono ogni giorno (dato 2021), spesso a causa di malattie prevenibili e curabili, quali malaria, ma anche di patologie riconducibili a malnutrizione e pessime condizioni igieniche. Le problematiche ancora diffuse in ambito sanitario – con strutture pubbliche carenti, costi delle cure molto alti rispetto al potere d’acquisto – colpiscono in realtà la maggior parte dei cittadini, indipendentemente dal sesso e dall’età, come denunciato da alcuni film ambientati in diversi Paesi del continente. Mi viene in mente il lungometraggio “Félicité” di Alain Gomis (2017), potente ritratto al femminile, spaccato di vita nella caotica Kinshasa, incentrato sulla battaglia quotidiana di una ragazza-madre che cresce il figlio 14enne. Il calvario vero e proprio comincia con il grave incidente di moto del ragazzo e il rischio che perda la gamba. Un racconto poco edificante del sistema sanitario congolese, caratterizzato da costi esorbitanti, trafile, disorganizzazione e figure professionali contestabili. Tra determinazione e rassegnazione, Félicité, come farebbe ogni madre, percorre tutte le strade per trovare l’ingente somma di denaro richiesta dai medici per operare il figlio.

Cause e responsabili delle fragilità degli ultimi

Le fragilità degli ultimi nel Sud del mondo è in buona parte causata e alimentata da problematiche strutturali di natura economica e politica, che vedono dittatori di turno, giunte militari e altri poteri forti, portare avanti sistemi profondamente iniqui che generano forti disuguaglianze sociali. Oltre a conflitti armati, carestie, epidemie, in causa ci sono anche le intese commerciali siglate con governi e multinazionali di Paesi occidentali, con la Cina e con altre potenze emergenti. Accordi che sono un assegno in bianco per sfruttare il ricco sottosuolo – oltre che le risorse umane, a basso costo – realizzando profitti miliardari, ma provocando spesso danni collaterali, non solo ambientali, con quasi sempre scarse ricadute di sviluppo per i locali. 

Le fragilità storiche sopracitate, note da tempo e riportate da alcuni media più attenti alle sorti degli ultimi, devono fare i conti con cause più ‘nuove’, aggravando ulteriormente le prime e ampliando il divario con il resto del mondo. Tra i fattori negativi citerei il Covid-19 e i cambiamenti climatici, che portano ad una maggiore fragilità sanitaria e ambientale. Se la pandemia ha provocato relativamente poche vittime in Africa, è stata, però, un fattore di ulteriore impoverimento economico di popolazioni dalle condizioni lavorative molto precarie in partenza. Il riscaldamento globale poi a quelle latitudini si manifesta con maggior forza, portando a siccità prolungate, che durano anche mesi, e alluvioni a ripetizione che devastano attività agricole vitali, infrastrutture e abitazioni carenti e fragili, anche loro. 

Tutte condizioni di vita ostili, con scarse prospettive di crescita, che spingono giovani e meno giovani, soprattutto di sesso maschile, a migrare, rimanendo però nella stragrande maggioranza dei casi nei Paesi confinanti, quindi in Africa. Un’altra parte, invece, punta verso l’Europa, intraprendendo la pericolosa traversata del Sahara e poi del Mediterraneo, diventato un cimitero di migranti. Secondo Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, citando i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), tra gennaio e luglio scorso, le sue acque hanno inghiottito più di 2.060 persone. Anche nel 2023 il Mediterraneo centrale rimane la rotta più attiva verso l’Ue, con oltre 89 mila rilevamenti segnalati finora, la metà di tutti quelli riscontrati alle frontiere dell’Europa, in aumento del 115% rispetto al periodo precedente. 

Le fragilità degli ultimi in Europa e in Italia

Quando si dice che “tutto il mondo è paese”, gli ultimi giunti in Europa dall’Africa e dai Sud del mondo, dopo viaggi della speranza, giacciono di frequente per le strade delle nostre città, quando non finiscono nelle mani di trafficanti e sfruttati dal caporalato, mettendo in pericolo le loro vite. Una sorte, quella degli ultimi, che accomuna questi migranti a un numero sempre più cospicuo di poveri ed esclusi sociali nell’Unione europea. Lo scorso anno, secondo i dati Eurostat, nell’Ue ben 95,3 milioni di persone erano a rischio povertà o esclusione sociale, pari al 21,6% della popolazione. Un rischio, come sottolineato dall’ufficio di statistica europeo, “più elevato” per le donne rispetto agli uomini (22,7% rispetto al 20,4%) mentre oltre un quinto (22,4%) delle famiglie europee con figli a carico è a rischio. I valori più elevati sono stati osservati in Romania (34%), Bulgaria (32%), Grecia e Spagna (entrambe al 26%); le quote più basse sono state registrate, invece, in Repubblica Ceca (12%), Slovenia (13%) e Polonia (16%).

L’Italia è al di sopra della media europea con il 24,4%, pari a 14,3 milioni di persone a rischio, ovvero quasi una persona su quattro. Secondo l’Istat nel suo report su reddito e condizioni di vita, grazie alla ripresa dell’economia dopo la pandemia e all’incremento di occupazione e redditi, nel 2022 si è però ridotta la percentuale della popolazione in condizione di grave deprivazione materiale e sociale, al 4,5% rispetto al 5,9% del 2021. 

Tuttavia, da febbraio 2022, quando è scoppiato il conflitto tra Ucraina e Russia, l’inflazione alle stelle, in particolare il caro cibo e il caro energia, ha portato un altro duro colpo agli ultimi, con conseguenze sotto gli occhi di tutti. 

In ogni punto del globo, di fronte alla fragilità, o meglio alle fragilità, degli ultimi non bisognerebbe girarsi dall’altra parte. Non dovrebbero essere ignorate o nascoste, ma considerate con attenzione e rispetto da parte di chi fa il giornalista, da studiosi e intellettuali, dai governanti. Ci riguardano tutti, da vicino: affrontarle, curarle, superarle è una questione di responsabilità ma soprattutto di umanità, cruciale e vitale per il presente e il futuro delle nostre società.

ph Marina Tabacco


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