19 Ott Tenera è la notte, fragile è lo Stato
(e purtroppo non è solo un titolo) di Michele Fianco
Forse ribalterei la questione, quantomeno per evitare il rischio – che so di poter correre in pieno – della ‘pietas’ e della commozione. Allora, partirei da un ricordo prossimo, di natura sia personale che professionale. Appena qualche anno fa feci parte di un team della Presidenza del Consiglio – Affari Regionali che si occupava di riforme amministrative, più precisamente di enti locali, di unione e fusione di comuni, città metropolitane ecc. Potei assistere a diversi incontri in cui si faceva riferimento al tema di cui sopra, certo – la fragilità di un Paese ‘bombardato’ in quel momento dal virus e dalle conseguenti cessazioni, depressioni e chiusure di ogni via economica e sociale –, ma alla luce del PNRR, all’occasione ‘favorevolissima’, quindi, che post-pandemia, con un’erogazione di contante affatto eccezionale per la ‘tradizione’ europea, vi poteva essere anche per i territori, le regioni, gli enti locali, appunto. Non solo in chiave di recupero, di cauterizzazione delle ferite da Covid, ma anche per ripensare l’assetto stesso delle aree interne. Premetto: che un progetto sì ampio potesse contenere anche nel suo acronimo la ‘R’ di ‘resilienza’ (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), mi favoriva una certa diffidenza, a prescindere, pregiudiziale, certo. Personalmente la intendevo/intendo come una declinazione storica di una medievata ‘penitenza’, con una declinazione fortemente economica, e non solo morale, come in origine. Con il significato, dunque, di invito a trovare un senso, un lato positivo, nella rinuncia, nella sopportazione (un po’ grossier, forse, ma, in fondo, il potere non ha sempre avuto il vizio di ritenere che le umane reazioni debbano essere anche un poco imposte, “ché il nostro piangere fa male al re”?).
Uno degli esperti chiamati a relazionare tra analisi, case history e riflessioni (al momento mi sfugge il riferimento anagrafico, ma solo per mio difetto, e assolutamente non per qualche forma di reticenza; entro la fine dell’articolo, ricorderò, promesso), soffrendo evidentemente della mia stessa allergia, volle sottolineare e ribadire invece l’aspetto in luce della questione, la prospettiva, la possibilità quasi unica del momento, togliendo l’eterna condanna alla polvere di una civiltà penitente per vocazione che il termine ‘resilienza’ sembrava contenere, ridefinendola nel più vasto concetto dell’antifragile. Se il prurito, il fastidio iniziale per il termine governativo era lo stesso, non so se il calzare, una volta indossato, potesse avere il mio stesso numero. Ma poco importa, poiché è utile ugualmente. Mi capitò di definire, infatti, in un mio vecchio blog, come ‘istinto di dopoguerra’ quella innata capacità di agire per la cura, per la sopravvivenza, e di proiettarsi, al contempo, altrove, di cercare nuove soluzioni, laddove la strada sembra interrompersi una volta per tutte. Un’esistenza solo in difesa, pur imparando a difendersi, del resto, non si può; e te lo spiegano bene spesso i medici quando parlano con meritoria perizia di sofisticatissime cure, sì, ma con numerose digressioni sulla qualità della vita che verrà una volta fuori dal momento terapeutico.
Ecco, a questo punto, a quest’altezza della storia (e dell’evoluzione umana), mi sembrerebbe decisamente più logico di parlare di fragilità solo in chiave di ‘antifragilità’, o di ‘istinto di dopoguerra’, come più può piacere, anche alla luce del fatto che l’elemento più fragile in natura parrebbe essere – fotografia di oggi – lo stato, tout court; se volessimo invece delimitare lo specifico, diremmo le pendici di quelle che si definiscono ‘politiche del lavoro’.
Per carità, un discorso appena esemplare, questo, che non vuol esaurire, certo, altre possibilità di accesso al tema; e proprio per logica ‘di esempio’, ne ‘fatturerei’ qualcuno, rintracciabile ai giorni nostri, apparentemente anche un poco laterale, forse, da inscrivere poi, però, in più ampio contesto:
il concetto, che sembra oramai dato per buono, è che per lavorare occorrano soldi (e non si fa riferimento a licenze, locazioni ecc. di pertinenza di una qualsiasi forma di libera impresa). Fate caso alle iscrizioni a taluni concorsi, ai relativi corsi preparatori, alle certificazioni da ottenere, pena esclusione dalle prove, e giù via, così. Da quando si è pensato che tutti appartenessero a quella buona borghesia che lavora per cercare un senso nella propria vita e un proprio posto nel mondo?
Oppure, l’inesistenza di alcun sistema di valutazione ‘qualitativo’ nel territorio della scuola – e più nello specifico, nell’‘individuazione’ dei docenti. Questo è evidentemente un altro punto di fragilità estrema di uno Stato. Qualità che dovrebbe essere requisito primo, vista la delicatezza del tema, tra l’altro. Invece, come una nube che si minacci all’orizzonte, in prossimità di una prova, ecco che, al contrario, si rispolvera la solita vecchia macchina che va ‘a quantità’ – una prova quiz oriented e un programma infinito, indifferenziato, copy and paste, dal concorso precedente e da quello precedente ancora, e così via, all’infinito. Tutto ciò sembra perfino mettere in dubbio quanto certificato dallo stesso ente – Ministero dell’Istruzione, o dicastero a esso contiguo – con la laurea. Paradosso o follia? Vero è che, al tempo nostro, la scuola è divenuta, anche per altre mancanze, un/il nuovo ufficio di collocamento; purtroppo, però, con una gestione simil smorzo (e per chi non sapesse cosa sia lo smorzo, invito a cercare in rete).